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Adrian Paci. Spostamenti e aperture

Articolo redatto da Luca Chilò per la rubrica CollegARTI in occasione della conferenza di Adrian Paci organizzata nel contesto dei Mercoledì di Santa Cristina.

14 febbraio 2018

 

Adrian Paci. Spostamenti e aperture

 Luca Chilò

 

Per il ciclo “I mercoledì di Santa Cristina” , ideato da Daniele Benati al fine di portare l’attenzione degli studenti e della cittadinanza sulle ultime novità della ricerca accademica, ma anche sul panorama e sugli attori del contemporaneo, si è svolto nell’Aula Magna del Dipartimento delle Arti l’incontro con l’artista albanese Adrian Paci.

A presentare l’evento, in una sala gremita da studenti, appassionati e curiosi, il professor Roberto Pinto, il quale, nell’introdurre l’artista, ha ricordato l’amicizia quasi ventennale che li lega da quando, in veste di curatore, è stato il primo, nel lontano 2001, a coinvolgere Adrian Paci in una mostra collettiva,senza più smettere di seguirlo professionalmente. Solo per citare alcune parole della presentazione: “A rendermi cara la sua produzione è l’affrontare i problemi attuali senza mai l’uso della retorica. Il punto di vista personale non scade mai in faccende cronachistiche volte solo alla risonanza mediatica”, “… un uso del linguaggio sempre adeguato al messaggio”, “… un artista flessibile che ha saputo leggere ed unire tradizioni diverse”.

Adrian Paci prende la parola subito dopo un significativo cambio della proiezione che fa da sfondo: da un’immagine di una sua installazione luminosa - tratta dalla mostra personale Di queste luci si servirà la notte, tenutasi al Museo del Novecento di Firenze - ad un austero quadro con operai al lavoro.

L’artista ha raccontato il suo passato da studente e, volgendosi all’opera proiettata, ha affermato: “questo è il genere di pittura che studiavo all’Accademia in Albania; arte di regime, fatta per la propaganda”. Poi ancora: “Io, insieme a tanti altri miei colleghi, sognavo la libertà, una specie di liberazione del segno, ed in un certo senso pensavo di farla”. Come in tutti i Paesi soggetti al dettame comunista anche la popolazione albanese doveva sottostare alle rigide restrizioni imposte alla libera espressione a causa dei diktat politici, che miravano alla soppressione di quell’arte considerata “degenerata” e pericolosa arma di diffusione di idee. Questa chiusura aveva impedito l’entrata nella Repubblica Albanese di tutte quelle “rivoluzioni” apportate all’arte provenienti dall’Europa e, soprattutto, dall’America, lasciando gli artisti della Nazione in uno stato di completa inconsapevolezza rispetto a quello che avveniva nel resto del mondo.

In quegli stessi anni, però, si venne a creare nei Paesi comunisti una crisi che ebbe il suo culmine, e ne fu strettamente collegata, nel crollo del muro di Berlino e nella caduta in Romania di Ceaușescu. Nel 1991, infatti, con l’allentarsi del regime politico albanese, per Paci, come per tanti altri, si aprì la possibilità di lasciare il Paese. L’anno successivo decise di raggiungere l’Italia, dove visitò musei, frequentò gallerie ed esposizioni e scopri che il processo di rinnovamento della pittura da lui iniziato era addirittura una pagina già superata dell’arte contemporanea: “In visita a Milano negli anni ‘90 ho capito che dipingevo come un italiano degli anni ’60”. Dopo essere tornato per qualche tempo in Albania, nel 1996 si ristabilì in Italia con tutta la famiglia. Ed è proprio in questo lasso di tempo e, appunto, di “spostamento”, che aprì il suo linguaggio artistico a nuovi orizzonti.

Nel suo secondo periodo italiano, racconta l’artista: “iniziai a lavorare con il video. Non potevo dipingere, ma solo registrare fatti. Poi usai il video per tornare finalmente alla pittura, ma in una cifra totalmente diversa da quella accademica. Fu un processo molto complicato”. “Un giorno - aggiunge ancora Adrian Paci - fermando in un punto a caso il video del mio matrimonio, mi accorsi che anche le scene di valore secondario, casuale, avevano una certa armonia non voluta, simile alle composizioni tanto care all’Accademia. Da qui l’idea di ricercare l’immagine che va oltre al contesto che la genera”. In questa fase del suo percorso, dal punto di vista puramente tecnico, infatti, fece foto, video, copiò frame, con tecniche e supporti diversi. Soffermandosi sulla poetica di questi gesti chiarisce cosa una sua opera d’arte deve esprimere: “[essa] ha il compito di cambiare il rapporto con l’esperienza. Il gesto dell’artista sposta sempre qualcosa, crea uno spostamento di significato e una conseguente apertura a nuove possibilità di lettura”, e “nel momento in cui ho pensato questo, il mezzo non era più importante, mi premeva solo riuscire ad esprimermi”. Tale cambiamento di tecnica non muta però il bacino a cui l’artista attinge per la sua arte, riferendosi sempre alla Patria, alle sue origini: non l’Albania eroica dell’uomo comunista, ma una terra frantumata dalle tante restrizioni che fino ad allora erano state applicate, ove i personaggi sono uomini che scappano dal loro Paese per trovare fortuna altrove.

Tra i più suggestivi lavori mostrati, a questo proposito: Back Home, creato nel 2001, e Untitled, opera del 2014. La prima è una serie fotografica che ritrae famiglie di emigrati albanesi su sfondi dipinti, rappresentanti interni di case: si tratta delle abitazioni che questi uomini hanno dovuto lasciare e che l’artista è andato in loco a fotografare per poi riportarle fedelmente. La seconda è un’unica foto scomposta a mosaico, il cui soggetto è un bambino che corre su una spiaggia con un’espressione poco riconoscibile: apparentemente di dolore, ma è tutta un’illusione. Infatti è solo un felice invitato a un matrimonio colto in un frame fuorviante. Entrambe le opere portano al loro interno messaggi profondi resi con l’arma più potente di Adrian Paci: lo “spostamento”. Per Back Home si tratta di uno spostamento geografico, oltre che di significato; in Untitled si attua una completa risignificazione dal felice al tragico, dalla verità alla menzogna, metafora della percezione mediatica delle informazioni.

Home to Go, scultura del 2001, probabilmente tra sue opere più celebri, esprime tutta la filosofia di questo artista eclettico. Un uomo di gesso bianco regge sulla sua schiena, grazie a un’imbragatura fatta da corde, un tetto rivolto all’incontrario a rappresentazione di tutti gli uomini albanesi o, forse, di tanti uomini nel mondo, costretti a scappare e ad abbandonare la loro casa e il loro passato, lasciandoselo alle spalle. Il tetto per l’artista assume molti significati e rispetto alla sua posizione Adrian Paci afferma: “mi sembrava anche un paio di ali con cui poter volare via”. Durante l’incontro quest’opera, riproposta di mostra in mostra in diverse collocazioni, introduce un altro importantissimo tipo di spostamento: quello inerente al cambio del luogo espositivo. “Credo che il dialogo con il luogo aggiunga sempre qualcosa al mio lavoro. Una mia opera in un posto comunica una cosa, in un altro cambia completamente di significato. Ci tengo che le mie siano opere aperte e che il pubblico sia parte integrante di questa risignificazione”. Per questa ragione alcuni lavori vengono riproposti e a volte, prima che si iconizzino in una sorta di “marchi di fabbrica”, distrutti, come nel caso di quest’opera.

Ultima, ma non meno importante, questione trattata dall’artista è il tema della speculazione edilizia in Albania, che ha portato alla realizzazione di un innovativo progetto sul suolo albanese. Negli ultimi anni si è dato avvio ad una sistematica segnalazione dei vecchi edifici, con conseguente indicazione alla demolizione per far posto a nuovi palazzi. Tutto questo “a scapito della memoria comune”. Alla notifica della demolizione della casa dov’è nato, a Scutari, Adrian Paci è corso nella sua terra natale per trovare un modo per salvarla. Oltre a riuscire a mantenerla intatta, ha deciso di costruirne una nuova in dialogo con essa e con la funzione di centro per le arti. Art House, questo il nome del complesso, ha aperto nel 2015 e ospitato conferenze e mostre di personaggi di valore internazionale.

In chiusura è giusto ricordare l’intervento di Claudio Marra, in merito alla foto di Oliviero Toscani che ritrae la Vlora - la nave proveniente dall’Albania che nel 1991 approdò a Brindisi con a bordo migliaia di emigranti – utilizzata come pubblicità per il marchio Benetton. La risposta di Paci, forse con un pizzico di ironia, è alquanto sorprendete: “Toscani è un artista molto intelligente, che stimo e rispetto. Personalmente non credo che quella foto sia così scandalosa, l’arte è libera espressione e ognuno la interpreta secondo il suo modo di vedere. Diversamente saremmo sotto un regime, no?”.

Il saluto e il ringraziamento, quasi persi negli applausi generali, di Roberto Pinto ad Adrian Paci e al pubblico concludono questo interessantissimo incontro. “I mercoledì di Santa Cristina” si dimostrano ancora una volta come un momento prediletto per testimoniare il fermento culturale universitario bolognese, e con un indice di gradimento così alto possiamo solo auspicare che continuino a lungo nel tempo.