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Sergio Marinelli: Il ritratto veneto nell'età di Domenico Tintoretto

Articolo redatto da Anastasia Martini e Federica Parenti per la rubrica CollegARTI in occasione dell'incontro con il professor Sergio Marinelli dell'Università Ca' Foscari di Venezia.

29 marzo 2017

 

Il ritratto veneto nell'età di Domenico Tintoretto

Incontro con Sergio Marinelli

Anastasia Martini e Federica Parenti

 

Mercoledì 29 Marzo 2017, nell’Aula Magna del complesso di Santa Cristina, si è svolto l’incontro, coordinato dalla professoressa Angela Ghirardi, dal titolo Il ritratto veneto nell’età di Domenico Tintoretto, con  la partecipazione del professor Sergio Marinelli, ordinario di Storia dell’arte moderna presso l’università Ca’ Foscari di Venezia. Il Professor Marinelli ha fondato, nel 1988, la rivista Verona Illustrata di cui è condirettore e ha rivolto i propri interessi di ricerca  soprattutto alla pittura veneta del Cinquecento; di recente ha curato, insieme a Michiaki Koshikawa, la mostra Venetian Renaissance Paintings from the Gallerie dell’Accademia al National Art Center di Tokyo.

Il professor Marinelli ha introdotto la figura di Domenico Tintoretto partendo dal padre Jacopo e sottolineando il fatto che la fortuna pittorica di quest’ultimo fu disomogenea nel tempo; i giudizi storici furono, infatti, contrastanti, in quanto da subito fu considerato da alcuni cattivo pittore e da altri il miglior pittore mai esistito. Di certo, come indicano le fonti, Jacopo fu un artista rivoluzionario, che destava più stupore e sgomento che comprensione e lode. Nel Cinquecento Vasari non fu in grado d’interpretarne l’opera; nel Seicento Boschini e Ridolfi lo considerarono un grande pittore; nell’Ottocento John Ruskin lo pose a un livello qualitativamente superiore a Michelangelo e Tiziano; ancora, in pieno Novecento, Roberto Longhi dichiarò che era  stato la brutta copia di El Greco.

I primi anni di apprendistato di Domenico trascorsero dentro la bottega del padre alla ricerca di una propria dimensione espressiva. Col tempo l’approccio all’attività pittorica del figlio-discepolo si articolò seguendo modalità differenti da quelle paterne. Jacopo, pur avendo la propria bottega, preferiva lavorare in solitudine mentre Domenico discuteva le proprie idee e operava sempre assieme ai propri collaboratori; il primo accettava gli incarichi solo qualora molto remunerativi e lasciava al figlio le committenze di carattere pubblico.

Nel 1594, alla morte di Jacopo, Domenico "ereditò" la bottega che, grazie all’aumento del numero delle committenze, assunse l’importanza di una vera e propria “industria” cui si rivolsero, poco alla volta, anche tutte quelle persone che non avevano compreso le capacità del padre in vita ma che lo avevano rivalutato dopo la morte. Quando Domenico, ormai anziano, fu colpito da un attacco apoplettico che gli causò la paralisi di metà del corpo, obbligò Kasser, il responsabile della bottega, a sposare la propria sorella settantenne per mantenere in vita il “marchio Tintoretto”.

Il primo ritratto ufficiale fu eseguito da Domenico nel 1585 in occasione del ricevimento a Palazzo Ducale dell’Ambasciata Giapponese, composta da cinque giovani accompagnati da alcuni Gesuiti. Purtroppo il ritratto non fu portato a compimento a causa di alcune divergenze diplomatiche fra Venezia e i Gesuiti, come ricorda nella Vita di Jacopo Tintoretto Carlo Ridolfi, fonte imprescindibile per la storia della pittura del Cinquecento veneto. Si tratta del Ritratto di Ito Sukumasu “Mancio” nel quale Domenico riesce a rendere con incisività espressiva la freschezza psicologica del giovane giapponese nonostante la breve durata della cerimonia, a dimostrazione della sua straordinaria abilità ritrattistica. I tratti somatici di Sukumasu sono, però, alterati, in quanto il pittore fece assumere allo straniero sembianze europee; senza le indicazioni di Ridolfi che ha fatto notare, nel verso del quadro, la data e il nome del soggetto ritratto non riusciremmo, infatti, a identificare il soggetto.

È interessante sottolineare i vari passaggi di proprietà che ha subito l'opera; da Domenico passò a Kasser che a sua volta lo vendette al viceré di Napoli il quale, indebitato, dovette cederlo ad un usuraio fiorentino; Antonio Tribuzio è attestato, poi, come l’ultimo proprietario. Esami approfonditi hanno messo in luce che il ritratto fu modificato dopo l’esecuzione dallo stesso Domenico - che eliminò la gorgiera - negli ultimi anni del Cinquecento, probabilmente per venderlo o adattarlo alla moda del tempo.  Quest’opera ha un valore storico considerevole, in quanto si tratta del primo ritratto di un giapponese realizzato da un artista occidentale.

Durante l’incontro sono poi stati illustrati alcuni ritratti ufficiali di Domenico. Mentre nel Ritratto di Hasekura Tsunenaga, ambasciatore del Giappone (1615) di Archita Ricci il soggetto è raffigurato a Roma in abiti tradizionali e tratti somatici giapponesi, Domenico in Ritratto di Ito Sukumasu “Mancio” mostra un atteggiamento antitetico in quanto europeizza il soggetto vestendolo con abiti veneziani dell’epoca. L’intensa attività pittorica di Domenico per la ritrattistica ufficiale è testimonianza della grande e riconosciuta "espressività epidermica" delle sue opere al pari di Velazquez e El Greco, come ben esemplificano il Ritratto maschile con crocifisso e Ritratto di Leandro Bassano. Lo stesso Ridolfi giudica i ritratti  di Domenico Tintoretto “così vivaci e naturali che sembrano vivi”, sottolineandone l'urgenza e la capacità di palesare sulla tela l'interiorità spirituale e la fisiognomica di chi vi posa dinnanzi.

Oltre alle produzioni ufficiali Domenico si dedicò a una serie di figure femminili, tra cui alcuni ritratti di cortigiane. Anche in queste opere la maestria dell’artista riesce a rendere ognuna di loro un capolavoro in grado di trasportare lo spettatore in un clima di profondo romanticismo, come nella Maddalena penitente (1598-1602).

Se Domenico ha saputo dimostrare nella ritrattistica una eccezionale ricerca espressiva dei caratteri psicologici, non  ha reso risultati di pari livello, come invece il padre, nelle opere di storia e mitologia. Ne è un esempio Tarquinio e Lucrezia (1578-80) di Jacopo, soggetto successivamente trattato anche dal figlio. Mentre Jacopo connota i personaggi in modo emotivamente violento e con un tratto plastico incisivo intensificando il moto dei gruppi e la commozione degli animi, Domenico difetta di resa espressiva, in quanto non riesce a ricreare quel clima di drammaticità e intensità emotiva caratteristico dello stile del padre.

Complessivamente la produzione del pittore, tutt'altro che esigua, è caratterizzata dall'intento di realizzare la trasfigurazione psicologica ed emotiva dei soggetti, tanto cara al padre; intento che, ad esclusione dei ritratti, è riuscito solo in parte, in quanto talvolta sono i contrasti di chiari e scuri a prendere il sopravvento. Le opere migliori, oltre ai ritratti, risultano perciò essere quelle eseguite in collaborazione col padre o in continuazione con il suo stile dopo la morte di quest'ultimo, anche se non si riescono sempre a delineare i confini dei differenti contributi.

Tra gli spunti di riflessione suggeriti dall’incontro quello riguardo alle relazioni fra lo stile pittorico di Domenico e le influenze paterne è di particolare rilievo. È stato comunque molto interessante partecipare alla conferenza poiché il professor Marinelli ha messo in luce la dominante stilistica nel ritratto di Domenico e, con curiosi aneddoti, ha illustrato alcuni aspetti salienti della vita di quest’ultimo all’interno di un contesto esigente e raffinato come poteva essere quello del Rinascimento veneziano.