Articolo redatto da Federica Corona per la rubrica CollegARTI in occasione della XII edizione della rassegna Videoart Yearbook.
25 maggio 2017
Videoart Yearbook 2017. L'annuario della videoarte italiana | XII Edizione
Federica Corona
Anche quest’anno si è voluta riproporre l’esperienza della scorsa edizione: il comitato scientifico, composto da Renato Barilli, Guido Bartorelli, Alessandra Borgogelli, Pasquale Fameli, Silvia Grandi e Fabiola Naldi, ha prediletto la presentazione di quattro antologie relative ad artisti che negli anni precedenti si sono distinti per la qualità del loro lavoro: Filippo Berta, Rita Casdia, Christian Niccoli e Debora Vrizzi. La scelta, come ha sottolineato il Professor Barilli, è stata quella di lasciar “riposare le acque della sperimentazione artistica”, senza però compromettere il fine principale della rassegna, ovvero la valorizzazione della videoarte in ogni sua variante e articolazione della ricerca. Tuttavia gli organizzatori hanno anticipato che è possibile che nelle future edizioni si ritorni alla precedente modalità di gestione della manifestazione, presentando un numero quanto più ampio possibile di lavori.
Prima di osservare il lavoro di ogni artista Renato Barilli ha introdotto l’incontro attraverso un dialogo con il neo Responsabile dell’Area Arte moderna e contemporanea dell’Istituzione Bologna Musei, Lorenzo Balbi, il quale si è dimostrato particolarmente interessato a rinnovare l’attenzione già mostrata, in qualità di curatore presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che negli anni precedenti ha ospitato un’edizione dello YearBook, verso l’arte del video. Balbi auspica di poter intensificare ulteriormente il legame tra artisti, pubblico e mondo accademico nel suo complesso, durante il corso del suo nuovo incarico, attraverso attività che pongano la videoarte al centro della ricerca e della fruizione, mantenendo il ruolo che storicamente l’Istituzione Bologna Musei ha rivestito, quale uno dei principali centri divulgativi dei linguaggi sperimentali dell’arte contemporanea, sia italiana che straniera.
Per ogni artista sono stati selezionati rispettivamente quattro lavori che ne hanno sintetizzato efficacemente il percorso e le caratteristiche estetiche. Le peculiarità di ognuno sono state descritte da alcuni membri del comitato scientifico, per fornire una breve introduzione alle immagini.
Le possibilità espressive del mezzo video sono molteplici: “Un uso totale e totalizzante dei media caratterizza i lavori di Filippo Berta” - primo artista ad essere presentato - “tanto da non poter circoscrivere il suo lavoro esplicitamente alla videoarte, ma sarebbe più appropriato utilizzare il termine anglosassone mixer–media”; Fabiola Naldi descrive in tal modo l’artista, di cui conosce il percorso creativo fin dagli esordi e le cui abilità emergono limpidamente nell’ultimo e inedito lavoro presentato “Just One” (2017).
I lavori di Berta non documentano solo azioni performative poiché le stesse performances sono costruite e dirette in modo non convenzionale, rivolte alla ricerca di una comunicazione che trova origine al di là del mezzo e dei gesti dei protagonisti, non sempre performer professionisti. È la ricerca di un linguaggio altro il centro propulsivo delle sue scelte estetiche, che nella sua diversità possa produrre il costituirsi di una nuova comunità. L’azione corale degli individui che interagiscono nei video rivela la necessità di porsi in relazione con l’altro da se, ma al costituirsi di una collettività emerge lo stridere delle diversità individuali. Nel video “Allumettes” (2013) uomini e donne, riuniti in quella che appare come una piccola comunità, provano a tenere accesa la fiamma prodotta da un fiammifero, ma uno dopo l’altro i cerini si consumano fino ad esaurirsi, e con essi i componenti del gruppo. Similmente in “Concert of soloist #2” (2015) alcuni uomini seduti ad un tavolo sono concentrati a succhiare avidamente dai rispettivi cucchiai una zuppa. Gli stridenti rumori emessi in modo asincrono orchestrano un concerto inascoltabile, se non nel momento in cui esso termina e ritorna l’armonia, seppur dissacrante, del silenzio.
Come negli anni precedenti, il comitato scientifico ha dedicato particolare attenzione anche ai lavori di animazione, spesso bistrattati dal mondo della videoarte ma portatori di nuove modalità espressive come nel caso di Rita Casdia: l’artista impiega la computergrafica e lo stop-motion per declinare un’articolata e complessa analisi del sé femminile. Attraverso bamboline di plastilina, la cui malleabilità rivela una corrispondenza ben congegnata tra forma e contenuto, Rita Casdia indaga, modella, scompone l’essere femminile fino a metterne a nudo le crepe più profonde dell’animo, come le fessure da cui fuoriescono e si nascondono i soggetti di “UFOr3” (2009).
Nei lavori dell’artista si definisce una contrapposizione tra il femminile e il maschile e, seppur quest’ultimo risulta una presenza latente, riesce a intimare un continuo stato di pressione e di angoscia. In “White Sex” (2008) su una giostrina bianca sfilano piccole donnine in pose pornografiche, gestualità che una società prettamente maschile impone. Il sesso è spogliato da ogni pudore e palesato all’osservatore in una paradossale alternanza di opposti: al bianco candido della giostrina, il cui carillon richiama un mondo infantile, si contrappone la sessualità lasciva dei soggetti, finché il gioco si ferma, la musica si interrompe e le donne aprono gli occhi. Solo nel video “Skin Life” (2014) l’uomo è visibile, nella forma di un essere mostruoso, il cui gigantismo sembra pervadere la piccolezza della donna, ma il colore nero con cui è tracciato e riempito il corpo-anima di quest’ultima, le conferisce una consistenza tale da poter sopravvivere e annientare l’essere maschile. In quasi ogni video l’ultima immagine rivela la possibilità di un cambiamento: in “It’s You” (2017), lavoro inedito, il soggetto sembra soccombere al pesante tessuto dell’omologazione, ma riesce a spogliarsi lasciando visibile solo il proprio sesso, nella sua naturalezza e vitalità.
La necessità, conscia e inconscia, di affermare se stessi, che collega come un leitmotiv i lavori finora esposti, si declina con accezioni diverse nei video di Christian Niccoli. L’artista è interessato all’analisi della singolarità per astrazione ed estraneazione, così come fa notare Pasquale Fameli: “L’artista, nella sua ricerca video, propone situazioni in cui mette in gioco elementi del quotidiano in modo estraniante e metafisico, video essenziali che non hanno uno sviluppo narrativo, ma presentano le azioni di soggetti non dialoganti tra loro, estrapolati dal proprio contesto originario. Per Niccoli il mezzo video è un modo per astrarre queste individualità dal quotidiano e porle in situazioni enigmatiche”.
In “Excalating Perception” (2004) abbiamo due inquadrature speculari: uomini e donne salgono e scendono singolarmente delle scale mobili, raccontando qualcosa di sé in singole frasi; il luogo è lo stesso, ma gli individui sono destinati a non incontrarsi e le parole di ognuno non giungono mai all’altro. L’estraniamento, l’incomunicabilità, la solitudine di individui galleggianti nello stesso mare, un deserto dell’anima in cui abbandonarsi o essere abbandonati, sono gli scenari visivi e concettuali dei video di Niccoli, come “Planschen” (2008) e “Der Weg zur Freiheit” (2010). I luoghi e i soggetti rivelano un apparente naturalezza: sono contesti accessibili all’immaginario, ma gli elementi che in essi interagiscono disturbano la quiete generando un senso di sgomento, alimentato dal parallelismo che l’artista crea tra l’ambiente e l’essere umano nella sua complessità. Paradigmatico è l’ultimo video della serie “Ohne Titel”, in cui la linea d’orizzonte taglia l’immagine che rimane nella sospensione dei due spazi per qualche secondo: sopraggiunge un elicottero ad interrompere l’attesa dello spazio-senza, un uomo scende dalle scale srotolate del veicolo, calandosi nel paesaggio desertico di un io in divenire.
Diverse sono le scelte di “regia” e tematiche dei lavori di Debora Vrizzi, il cui percorso artistico si identifica attraverso un’interazione con il mondo cinematografico e teatrale riconoscibile, come Silvia Grandi sottolinea, nel carattere “pseudo-narrativo” dei suoi lavori e nell’accurata costruzione delle scenografie. L’artista esprime nei video un legame diretto con il proprio vissuto e con il contesto culturale di provenienza come punto di partenza per conoscersi ed esprimersi. In “Switch Me Off” (2009) l’ambientazione e i personaggi in accezioni favolistiche sembrano tradurre ricordi infantili al limite tra il surreale e il realismo, caratteristiche dell’esperienza stessa del gioco, momento fondamentale nella costruzione del sé.
Il legame con il proprio nucleo familiare permane all’interno dei lavori dell’artista, che spesso lo sceglie come soggetto dei suoi video. In “Family Portrait” (2012) i componenti della famiglia Vrizzi soffiano la farina accumulata sul corpo di Debora ed è da quei soffi vitali che l’artista sembra prendere vita. Immagini che appaiono come pagine di un diario non nostre, ma che percepiamo come tali per la loro naturale familiarità. É questo ciò che si esperisce nel video “Rit Bianca” (2014), in cui i nonni si confidano e confessano i segreti della propria vita di coppia, in un dialetto non accessibile a tutti ma comprensibile nel suo significato attraverso l’intimità degli sguardi che la telecamera “in soggettiva” coglie, coinvolgendo così lo spettatore ad una emotiva partecipazione.
Si conclude, così, la XII edizione di ArtVideo YearBook che, attraverso la specificità dei linguaggi adoperati da ogni singolo artista, ha restituito uno sguardo complessivo e variegato delle modalità espressive della video arte italiana degli ultimi anni. Il coinvolgimento del pubblico è stato stimolato non solo dalla qualità dei lavori proposti, ma anche dalle capacità comunicative degli artisti che, in quanto giovani a noi contemporanei, hanno proposto una visione critica della nostra società, sollecitando la riflessione sulle modalità adottate per rapportarci ad essa. I messaggi e le tematiche introdotte hanno dato voce alla preponderante necessità di interrogare se stessi e di definire la singolarità dell’individuo in relazione ad una collettività, con l’urgente intenzione di ricostruirla o di ri-immaginarla.