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Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Articolo redatto da Angelica Bertoli per collegARTI in occasione della presentazione del libro di Alberto Mario Banti per il ciclo "Sul filo del tempo. Presentazioni di storia e politica".

15 febbraio 2018

 

Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Presentazione del libro di Alberto Mario Banti

Angelica Bertoli

 

Il 15 febbraio SISSCO, la Società italiana per lo studio della storia contemporanea ha presentato presso il Dipartimento delle Arti il libro di Alberto Mario Banti Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd per il ciclo Sul filo del tempo. Presentazioni di storia e politica. Banti ne ha discusso con Michele Cento, che ha dato il via al dibattito, e Marco Santoro.
Wonderland è un libro che attraversa la storia della cultura di massa a partire dalla sua comparsa, tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento negli Stati Uniti, analizzando allo stesso tempo anche la situazione che parallelamente si andava delineando nel Regno Unito.

Alberto Mario Banti concepisce la cultura di massa come “…quella in cui un’opera viene sottoposta a processi di semplificazione, serializzazione e standardizzazione, normalizzati a loro volta da regole rigide”. L’idea alla base della narrazione è che la cultura popolare tende a creare la rappresentazione di un ordine in cui le opere sono attraversate da quelli che vengono chiamati “dispositivi narrativi”, meccanismi cioè che servono a consolidare le distinzioni di categorie che caratterizzano la società americana: classe, colore e sesso.

Un aspetto fondamentale trattato dal volume è la grande novità che si verifica in questi anni quando, per la prima volta, alcune opere vengono pensate per un ampio pubblico - e non più rivolte a una ristretta élite - e messe al suo servizio, per permettere una rivolta proprio nei confronti di una ridotta cerchia di privilegiati di cui l’America cerca di liberarsi. Questi individui si identificano con una fascia sociale di medio-bassa cultura che, nonostante il reddito contenuto, può tuttavia fruire di una vasta gamma di prodotti del mercato e appare sulla scena americana in un momento storico di snodo, tra vecchi sistemi di opinione pubblica e nuove esigenze.

La cultura di massa non è presentata in maniera monolitica. Il volume, infatti, ci restituisce una visione degli anni ‘50 più tormentata rispetto agli abituali stereotipi: non sono solo gli anni del boom economico, dei consumi e del mito della famiglia, ma sono anche anni attraversati da molte e diverse tensioni.

Già nella copertina appare chiara la chiave di interpretazione del libro come testo narrativo e divulgativo: è, infatti, un’opera di sintesi rivolta al raggiungimento di un  ampio numero di lettori. Si tratta di un intreccio di tante storie in cui c’è una volontà, secondo Marco Santoro, di elaborare uno schema analitico concettuale che tenga conto di ciò che viene narrato e che si basa sulla constatazione che esiste storicamente, nella civiltà occidentale, un tipo di cultura detto “di massa” (gli Stati Uniti sono il centro dell’attenzione storica), denominazione usata dai protagonisti stessi della narrazione e che ne riflette le caratteristiche tipiche.

Esiste e si sviluppa un sistema mediatico per il consumo e per la produzione di merci culturali, riconosciute come oggetti simbolici, resi accessibili e fruibili sia da un punto di vista ideologico sia economico ad un ampio numero di persone. I prodotti si presentano pre-classificati in generi che devono essere facilmente identificabili e realizzati in serie. Questo aspetto standardizzato, infatti, produce un effetto importante perché attiva dinamiche di fidelizzazione del pubblico. Infine, un ulteriore aspetto rilevante è quello della intermedialità, ovvero dello sfruttamento di media diversi per veicolare questi beni (si pensi per esempio ai fumetti, alle serie televisive, al cinema).

Ciò che costituisce il nodo della trattazione di Alberto Mario Banti è la contrapposizione tra cultura mainstream e “controcultura”, dove la prima è determinata dai processi di produzione, distribuzione e consumo dei beni, mentre la seconda rappresenta culture minori che hanno origine dall’intreccio di varie voci a cui vengono tipicamente riservati spazi di espressione residuali all’interno del contesto economico-sociale. La cultura di massa, infatti, è uno spazio conflittuale attraversato da narrazioni di opposta natura, da norme e sovversioni: vediamo da una parte, per esempio, il cinema mainstream hollywoodiano, con ruoli standardizzati come quello dell’uomo macho che appartiene alla middle class di successo, dall’altra il tipo di cultura che viene dalle comunità afroamericane, come quella del blues. Tra queste due differenti visioni del mondo si inserisce un concetto importante: quello delle barriere che riguardano la razza, distinguendo una civiltà per bianchi e una per neri, e anche il genere, coinvolgendo il ruolo dell’uomo e della donna all’interno della società americana.

Per mettere a fuoco il concetto di “controcultura”, Alberto Mario Banti utilizza la definizione di “comunità interpretative”, spiegando che si tratta di subculture che esprimono esplicitamente una voce dialetticamente opposta rispetto al mainstream. La definizione serve all’autore come strumento per individuare un antagonista rispetto a quello che nella interpretazione standard del concetto di cultura di massa si identifica come un pubblico passivo. In questo modo prende forma uno schema in cui si contrappongono un tipo di cultura di massa omogeneo e di norma passivo e uno che si ritaglia un ruolo di interprete attivo.

La conclusione che fa seguito a un incontro così ricco di spunti di riflessione e che ha riempito una delle aule del Complesso Monumentale di Santa Cristina è che quello di Alberto Mario Banti non è esclusivamente un testo storico, ma anzi un ricco e articolato intreccio di visioni antropologiche, storiche, artistiche, in definitiva culturali. Wonderland ci restituisce una visione per niente scontata di quegli anni cruciali, soprattutto per la popolazione americana ma anche per tutta quella occidentale, che hanno dato origine ai fenomeni del consumismo e della globalizzazione, ma che sono stati anche culla di un’evoluzione sociale e culturale che, probabilmente, a molti è apparsa come un aspetto secondario.​​​