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Alessandro Morandotti presenta la mostra “L'ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi Maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610-1640)”

Articolo redatto da Filippo Antichi per la rubrica "collegArti" in occasione della presentazione della mostra a cura di Alessandro Morandotti e presentata dal professor Andrea Bacchi.

20 febbraio 2018


Alessandro Morandotti presenta la mostra “L'ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi Maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610-1640)”

Filippo Antichi

Ci sono mostre che si spiegano da sole e altre che hanno bisogno di una introduzione per esprimere a pieno tutto il loro potenziale. Tuttavia la presentazione del curatore è sempre un modo molto efficace per seguire il filo rosso che guida un progetto espositivo. Per questo motivo il nuovo ciclo di incontri della Fondazione Zeri si è posto l'obiettivo di accompagnare il pubblico alla scoperta delle più significative esposizioni in corso, attraverso le parole di coloro che le hanno ideate.

L'inaugurazione non poteva cogliere meglio nel segno se non invitando Alessandro Morandotti, uno dei curatori della mostra “L'ultimo Caravaggio. Eredi e nuovi Maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610-1640)” inauguratasi alle Gallerie d'Italia del Gruppo Intesa San Paolo, sede di Milano, lo scorso 30 novembre.

Andrea Bacchi ha brevemente introdotto l'intervento sottolineando come questa esposizione parta da Caravaggio, ma per portare in luce altri momenti e artisti meno conosciuti, pur se di assoluto rilievo per la storia dell'arte di inizio Seicento in Italia. L'iniziativa ha così fornito occasione per articolare un approfondimento di questo periodo in contemporanea con la “mainstream” “Dentro Caravaggio”, nel vicino Palazzo Reale, che ha mobilitato un pubblico molto vasto, ma si è concentrata solo sul famoso artista lombardo.

Alessandro Morandotti ha spiegato di aver dato corso al progetto espositivo partendo dal dipinto più importante e famoso nella collezione del committente: il Martirio di Sant'Orsola (1610), ultima opera di Michelangelo Merisi da Caravaggio e proprietà del Gruppo Intesa Sanpaolo.

La mostra si apre con un confronto particolare, anche per l'allestimento su tramezzi nel centro della corte del Palazzo delle Gallerie d'Italia, tra tre quadri raffiguranti il Martirio di Sant'Orsola: quello di Caravaggio appunto, in dialogo con quelli di Bernardo Strozzi e Giulio Cesare Procaccini, che eseguirono le loro opere almeno dieci anni più tardi. Se il Merisi scelse un'iconografia inusuale, rendendo la tragedia intima e privandola dalla coralità cui i pittori si erano sempre attenuti, il genovese Strozzi lavorò sull'idea di estasi e di ricongiungimento della santa con la sfera divina, linea seguita anche dal Procaccini in una rilettura stilisticamente più plastica, che denota la sua formazione come scultore. In entrambe le tele, infatti, risuona la “cultura degli affetti” di Correggio, studiatissimo dall'emiliano Procaccini, e mediato invece per Strozzi dal linguaggio pre-barocco di Federico Barocci.

Caravaggio, Strozzi e Procaccini sono dunque i tre artisti protagonisti della mostra, legati insieme dalle figure di due fratelli finanzieri genovesi, Giovan Carlo e Marco Antonio Doria. Fu proprio quest'ultimo a commissionare il Martirio di Sant'Orsola a Merisi, che dipinse l'opera a Napoli per inviarla a Genova, dove comunque ebbe un'eco assai minore rispetto a quello che ci si aspetterebbe oggi. La città ligure, infatti, ignorò per ben trenta anni lo stile caravaggesco, rimanendo più impressionata dalla grandiosità della maniera e dall'uso del colore importati pochi anni prima da Rubens. Allo stesso modo anche Milano, dove svolgeva la sua attività Giovan Carlo Doria e in cui lavorò a lungo Procaccini, si tenne alla larga dalla linea chiaroscurale del Caravaggio, che - suggerisce Morandotti - riscosse grande successo solo in quei luoghi dove effettivamente lavorò.

La mostra presenta dunque un punto di vista piuttosto originale attraverso la fitta trama che unisce tre artisti e tre città italiane nell'orbita spagnola – Napoli, Genova, Milano - grazie all'attività di due fratelli collezionisti che seppero guardare alle molteplici varianti stilistiche offerte dall'arte all'inizio del XVII secolo.

Alessandro Morandotti ha seguito il percorso espositivo, con l'intento di mostrare come le collezioni dei fratelli Doria siano state una fucina di stili per quel principio di Seicento alternativo a Caravaggio, soprattutto tra Genova e Milano. Non sempre però ci si è potuti avvalere delle opere effettivamente citate nel catalogo della collezione Doria, come nel caso della prima sala dedicata alla cultura caravaggesca a Napoli. Qui, infatti, si è cercato di rappresentare gli artisti prediletti di Marco Antonio Doria, nella cui collezione spiccava la Pietà di Jusepe de Ribera, ora alla National Gallery di Londra che non ha concesso il prestito, per cui è stato esposto un  Sant'Andrea del 1618 proveniente dai Girolamini di Napoli, come esempio del suo gusto collezionistico.

Mentre Napoli aveva assorbito l'influenza dello stile caravaggesco, a Milano si muovevano artisti che dipingevano in modo totalmente antitetico rispetto all'uso di ombre esasperate, come esemplificato nella seconda sala dalla Incoronazione di spine del Cerano (1600-02), vicina al naturalismo di Bartolomeo Passerotti e dei pittori del Nord Europa. Colpisce anche la grande Trasfigurazione (1607-08) di Giulio Cesare Procaccini, oggi a Brera, contraddistinta da una differenza stilistica al suo interno: la parte superiore con una influenza baroccesca su una composizione derivata da Raffaello, e quella inferiore aggiornata sulle novità coloristiche di Rubens. Si è cercato di mettere in luce anche alcune figure particolari che gravitavano attorno all'ambiente dei Doria, come l'artista conoscitore e consigliere dei collezionisti Luciano Borzone, con un dipinto del 1635 raffigurante la Carità romana, attribuito alla sua mano proprio da Morandotti: sotto al quadro è stata esposta una lettera di Girolamo Borsieri, sorta di critico militante dell'epoca, indirizzata allo stesso Borzone e nella quale viene spiegato che tipo di quadro l'artista avrebbe dovuto produrre.

Nella sala dedicata ai grandi quadri di Giovan Carlo Doria troneggia il suo ritratto equestre eseguito da Rubens nel 1606, vero e proprio capolavoro in cui questa tipologia viene rinnovata attraverso la sensazione di sfondamento data dal cavallo che irrompe impetuoso verso il visitatore, in un gioco sapientemente orchestrato di colorismi di ascendenza veneta. Le scelte collezionistiche di Giovan Carlo mostrano, accanto a grandi quadri di Strozzi e Procaccini - di cui è bene ricordare l'Estasi di Santa Maria Maddalena (1618-20), proveniente da Washington - anche alcuni capolavori di Simon Vouet, come il David, in uno stile classico che quasi preannuncia David e Ingres, e il San Sebastiano curato da Sant'Irene, del 1622, più manierista nelle pose serpentinate, ma con una vena ormai pienamente barocca.

Giovan Carlo era, inoltre, un grande collezionista di bozzetti, ai quali è dedicata la sala successiva. Si tratta spesso di piccole opere autonome, non pensate in funzione di composizioni più grandi; fanno tuttavia eccezione la Visione di San Domenico di Bernardo Strozzi (1621-22), preparatoria a un affresco oggi non più esistente, e l'Ultima Cena di Giulio Cesare Procaccini, preambolo alla maestosa tela della Chiesa di Sant'Annunziata del Vastato di Genova qui esposta. Quest'ultima da sola occupa una sala intera dove è possibile vedere da vicino il grande quadro solitamente situato sulla controfacciata della chiesa genovese. L'esposizione dell'opera in mostra è stata l'occasione per presentare anche l'imponente lavoro di restauro appena portato a termine dai laboratori della Venaria Reale. La tela, dipinta originariamente per il convento della chiesa e solo successivamente posta nell'attuale collocazione, è una rilettura in epoca barocca dello stesso soggetto dipinto da Leonardo da Vinci a Santa Maria delle Grazie a Milano, cioè lo sconvolgimento provocato dalla rivelazione di Cristo. Procaccini nel 1618 prese spunto dal modello leonardesco e lo rielaborò con una nuova teatralità ed espressività data anche dall'uso del colore, mentre le teste degli astanti paiono quasi modellate nella cera. Il risultato fu talmente convincente che l'opera venne da tutti ritenuta il capolavoro dell'artista.

In quegli stessi anni a Genova si andava diffondendo la moda degli Apostolati, serie di tredici ritratti raffiguranti Gesù Cristo e gli apostoli, commissionati a un unico artista. In mostra non è presente alcun ciclo completo ma singole parti di queste commissioni, opera di pittori quali Rubens, Van Dyck, Procaccini e Strozzi, che continuano a dialogare stilisticamente tra di loro anche in queste opere meno note.

La sala degli Apostolati rappresenta solo una pausa prima del gran finale con i monumentali notturni di Matthias Stomer e Gioacchino Assereto. Intorno al 1640, infatti, arrivarono a Genova una serie di grandi quadri commissionati da alcune importanti famiglie come i Durazzo e gli Spinola, dell'artista olandese trapiantatosi in Sicilia. Nelle sue tele vive il gusto del lume artificiale già sperimentato da Gerrit van Honthorst, una sorta di derivazione caravaggesca del notturno. Stomer venne ripreso da Assereto che unì a questa atmosfera, una realtà fatta di gesti crudi: ne La morte di Catone, ad esempio, il protagonista rovista nelle proprie ferite per accelerare il processo di morte, così come la merisianaOrsola tenta di strapparsi la freccia improvvisamente conficcatasi nel petto.

Ecco dunque che la lezione di Caravaggio arrivò a Genova radicalmente rielaborata, quando ormai si andava spegnendo nei suoi centri propulsori. Stomer fece scalpore e destò l'interesse del pubblico come il Merisi non era riuscito a fare in quella città, e con lui si conclude il percorso “anti-caravaggesco” di Morandotti, che ha portato l'attenzione dei visitatori su itinerari alternativi ma di grande valore e suggestione rispetto a quelli tracciati da uno dei principali interpreti del XVII secolo.

Il folto pubblico presente, composto anche da tanti giovani studenti, ha seguito con molto coinvolgimento l'intervento di Alessandro Morandotti il quale ha dimostrato quanto la spiegazione dell'articolato progetto sotteso a una mostra così complessa possa aiutare il pubblico a meglio comprendere e apprezzare le scelte del curatore e il percorso dell'esposizione.