Vai alla Homepage del Portale di Ateneo Laurea Magistrale in Arti visive

“Cassoni. Pittura profana del Rinascimento a Verona”: verso la riscoperta di un genere dimenticato

Articolo redatto da Luca Chilò per la rubrica collegArti nell’ambito della serie degli “Incontri in biblioteca” promossi dalla Fondazione Federico Zeri

21 febbraio 2019

“Cassoni. Pittura profana del Rinascimento a Verona”: verso la riscoperta di un genere dimenticato

Luca Chilò

Andrea De Marchi, professore di Storia dell’arte medievale presso l’Università di Firenze, il 21 febbraio ha presentato, per il ciclo organizzato dalla Fondazione Federico Zeri Incontri in biblioteca 2019, il volume Cassoni. Pittura profana del Rinascimento a Verona (edito da Officina Libraria, Milano, 2018) di Mattia Vinco. All’incontro hanno partecipato Andrea Bacchi, Daniele Benati, e l’autore del libro.

Produzione di importanza capitale del Rinascimento veronese, i cassoni istoriati – termine che racchiude tutti i mobili dipinti destinati all’ambiente domestico tra la fine del XIV e il XVI secolo – persero nei secoli importanza fino a diventare un genere quasi dimenticato, fatto attribuibile innanzitutto alla loro assenza, insieme a quella dei principali artisti del genere, dalle Vite di Giorgio Vasari; l’aretino, infatti, servendosi dell’inquisitore fra’ Marco de’ Medici come fonte per la città di Verona, ebbe scarso accesso alla pittura profana, vista di cattivo occhio dalla Chiesa della seconda metà Cinquecento, e alla quale appartenevano la maggior parte dei soggetti dei cassoni.

A dare visibilità a questa produzione, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, hanno contribuito storici dell’arte come Bernard Berenson, che inserì questi capolavori nella famose “liste” (una sorta di atlante sistematico della pittura italiana del Rinascimento), Wilhelm von Bode, con Die italienischen Hausmöbel der Renaissance e, soprattutto, Paul Schubring, che nel 1915 pubblicò Cassoni, Truhen und Truhenbilder der italienischen Frührenaissance. Ein Beitrag zur Profanmalerei im Quattrocento. Nonostante i sopracitati contributi dedicati specificatamente a questo genere di pittura, oltre che per gli spunti volti a una riflessione di ampio respiro sulla scuola veronese, quali Studien zur Geschichte der Malerei in Verona di Rudolf Wittkower e la recente mostra del 2006 Mantegna e le arti a Verona: 1450-1500, il Rinascimento di quell’area geografica era stato affrontato solo sporadicamente dal dibattito storiografico novecentesco; un “oblio” testimoniato anche dalla mancanza di monografie su importanti pittori impegnati in questo genere di opere, quali Francesco Benaglio, Michele da Verona e i Morone.

A raccogliere la sfida di un approfondimento su questi temi è stato il giovane storico dell’arte Mattia Vinco che, con il suo volume, ha riaperto la strada a uno studio organico di questo periodo. Egli ha tentato di “ricomporre l’infranto” – per citare le parole di Andrea De Marchi, mutuate da Walter Benjamin – di un universo ormai dimenticato, smembrato e disperso, tramite un corpus di ben 159 opere assegnate a diciotto artisti – tredici personalità già note alla storiografia e cinque a cui è stato dato un nome arbitrario dall’autore – per ognuno dei quali viene fornito un medaglione biografico. L’analisi dei singoli personaggi e delle loro botteghe, oltre a definire aspetti iconografico-formali particolari, ha permesso anche di smentire attribuzioni errate e luoghi comuni formatisi nel corso degli anni, come nel caso della Giustizia di Traiano della collezione Hearst, del Maestro degli Arma Christi di San Lorenzo che Salvatore Settis aveva ricondotto all’ambiente ferrarese, mentre viene qui attribuita al veronese Maestro degli Arma Christi.

Come sottolineato da De Marchi, la complessa lettura di queste opere non poteva sottrarsi dal confronto con il clima politico veronese: il retaggio tardogotico che permea molti dei cassoni istoriati presi in esame, infatti, è ascrivibile alla marginale importanza e autonomia della città dopo la “dedizione di Verona a Venezia” (1404), che sancì l’assoggettamento dei veronesi alla Serenissima, causando, per contrappasso, almeno nell’ambiente erudito e artistico, la volontà di attingere all’apogeo cortese e cavalleresco del periodo scaligero, alla forte tradizione tardomedievale e alle origine romane della città, che  –  come ricordato da De Marchi – Venezia non poteva vantare.

La ricerca ha permesso di distinguere principalmente tre tipi di casse: il coffinum pictum (cofano dipinto), la capsa (cassa) o il capsonus (cassone) – per oggetti di uso comune – e il scrineum de nogaria (scrigno di noce), destinato a contenere oggetti preziosi; l’approfondimento ha escluso le spalliere, i Cornicebilder (dipinti per camerino) e gli Eintsatzibilder, ovvero gli inserti pittorici non provenienti da cofani nuziali.  Generalmente, il “mobile nuziale”, si presenta con la “faccia” principale tripartita dallo stemma familiare (dello sposo) al centro e lateralmente da due tavole dipinte; quasi assente è invece la soluzione che adotta un’unica fascia istoriata.

Tranne in rari casi, dove queste opere si sono conservate intatte, la lettura è inficiata dall’assenza del mobile, in quanto, a partire dal Seicento, i cassoni, perdendo il loro valore d’uso, vennero smembrati per salvare l’unica parte di valore, i fragmenta picta. Essi, separati dalla cassa e dall’ornato rilevato – in pastiglia o ligneo – erano incorniciati e venduti come “quadretti” autonomi (aspetto che a volte li rende difficilmente rintracciabili). In quasi tutti le opere di questo genere l’“apparato” ornamentale era infatti strettamente collegato all’iconografia del dipinto, andando il più delle volte a completare il soggetto trattato, come si può notare nel caso del Cofano con episodi del mito di Atalanta e Ippomene del Maestro del Fetonte in collezione Correr. Per chiudere questa parentesi sull’ornato è doveroso sottolineare come taluni motivi decorativi ricorrenti nella produzione veronese fossero stati introdotti da Liberale al suo ritorno da Siena, seguendo uno stile probabilmente assimilato da Francesco di Giorgio e Antonio Federighi.

Mattia Vinco, nel corso della sua lunga ricerca, ha individuato un dettaglio “tecnico” importantissimo, un intaglio a “L” che, posto sempre nella stessa posizione rispetto la fronte – serviva per inserire i pannelli di un repositorio segreto – rende facilmente riconoscibile, in assenza del mobile, la posizione della parte dipinta rispetto allo stemma familiare.

Dal libro emerge un altro aspetto fondamentale della produzione veronese: l’eterogeneità iconografica. Sono rappresentate, infatti, moltissime scene tratte dalla mitologia greco-romana, soprattutto per il loro valore di exempla morali e civili; eventi dal sapore esotico, ispirati al libro di Valerio Massimo Factorum et dictorum memorabilium libri; episodi biblici, anche se in numero esiguo dato che questo tipo di pittura si distingueva per i temi profani o scene tratte dalle narrazioni petrarchesche dei Trionfi. Caratteristica comune è il loro essere rappresentate come “favole coloratissime”.

I pittori del genere vennero in gran parte influenzati da Andrea Mantegna, come dimostrano i chiari riferimenti nell’opera di Francesco Benaglio e di Filippo da Verona. Sempre per via mantegnesca deve essere penetrato nella cultura veronese il carattere peculiare del rimando all’antico. Tipico della cifra stilistica di Mantegna, esso si ritrova in una consistente parte dei cassoni dipinti presi in esame, come per accentuare la volontà della città di rifarsi alle sue antiche origini, mostrando il dissenso verso l'assoggettamento a Venezia. A contrastare la forte “antichizzazione” delle scene – come denota De Marchi – veniva incontro l’esuberanza della decorazione, che metteva in luce le contraddizione tra “vecchio” e “nuovo” all’interno dell’ambiente veronese. A questo proposito egli ha proposto un paragone assolutamente nuovo con un’opera quasi estranea alla storiografia ma che sta alla base del Rinascimento a Verona, la Madonna con Bambino del Fogg Art Museum di Cambridge (attribuita ad Antonio da Negroponte). La tavola presenta un’impostazione tardogotica che si stempera in alcuni particolari che manifestano i sintomi per un nuovo gusto, più dolce e naturale, come nel volto della Madonna e nel vaso con i gigli, prodromo dell’arte di Francesco Benaglio.

Conclusosi il brillante intervento di Andrea De Marchi, a prendere la parola è stato l’autore, Mattia Vinco, con una riflessione sull’importanza ricoperta dalla fototeca della Fondazione Zeri all’interno della sue ricerche. Federico Zeri, attento studioso delle “periferie” artistiche, anche se in vita pubblicò un solo articolo sulla scuola pittorica veronese, riguardante il Ratto di Elena (di Zenone Veronese), all’epoca proprietà del Metropolitan Museum of Art di New York e oggi in collezione privata a Verona, durante la sua vita si occupò comunque di diverse opere di quell’area. Infatti, nel consultare il materiale fotografico dello studioso, Vinco ha potuto rintracciare alcune sue preziose annotazioni – indispensabili per orientarsi in “quella selva anonima” – come quelle riguardanti Michele da Verona. A lui giustamente Zeri attribuì due dei dieci pannelli delle Metamorfosi di Ovidio (precisamente quelli di Giunone e Callisto e Le Eliadi e il cigno trasformati in alberi davanti alla tomba di Fetonte) del Kunsthistorischen Museum di Vienna, opera di importanza capitale di tutto il Rinascimento italiano.

La presentazione del volume ha offerto molteplici spunti di riflessione e ha portato alla conoscenza del pubblico e soprattutto dei tanti studenti di Arti Visive presenti all’incontro temi poco noti, ma di importanza capitale per comprendere a pieno il panorama artistico della Penisola, il che rende queste occasioni di approfondimento culturale davvero preziose.