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Caterina Virdis Limentani e Maria Vittoria Spissu: “La Via dei Retabli. Le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna del Quattro e Cinquecento”.

Articolo redatto da Filippo Antichi per la rubrica CollegARTI nell’ambito della serie degli “Incontri in biblioteca” promossi dalla Fondazione Federico Zeri

14 febbraio 2019


Caterina Virdis Limentani e Maria Vittoria Spissu: “La Via dei Retabli. Le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna del Quattro e Cinquecento”.

Presentazione del libro di Caterina Virdis e Maria Vittoria Spissu

Filippo Antichi

Lo scorso 14 febbraio nell’ambito della serie degli “Incontri in biblioteca” promossi dalla Fondazione Federico Zeri, si è tenuta la presentazione del libro La via dei retabli. Le frontiere europee degli altari dipinti nella Sardegna del Quattro e Cinquecento (edito da Carlo Delfino Editore) scritto a quattro mani da Caterina Virdis Limentani e Maria Vittoria Spissu. A quest’ultima e a Daniele Benati è stato affidato il compito di guidare il pubblico, avvicinandolo a un argomento poco frequentato.

Dopo il breve saluto di Andrea Bacchi, direttore della Fondazione Zeri, Daniele Benati ha parlato delle due autrici del volume, ultima pubblicazione di Caterina Virdis Limentani, affermata studiosa di arte fiamminga, materia di cui ha detenuto la cattedra presso l’Università di Padova (quasi un unicum nel panorama accademico italiano), venuta a mancare nel settembre 2018. Maria Vittoria Spissu ha collaborato con lei per realizzare questo importante contributo, dopo aver già pubblicato una monografia sul Maestro di Ozieri, una delle personalità più importanti del Cinquecento sardo.

Benati ha fatto una panoramica sulla fortuna critica avuta da questa tipologia di produzione artistica partendo dai fondamentali, anche se ormai datati, studi di Corrado Maltese negli anni Sessanta, quando era docente all’Università di Cagliari, ai quali sono poi seguiti due specifici volumi sui retabli realizzati da Renata Serra nel 1980 e 1990. Il punto di svolta sull’argomento fu fornito da due mostre: la prima curata da Giovanni Previtali su Andrea Sabatini da Salerno, tenutasi nel 1986 alla Certosa di Padula, con cui si arrivava a contestualizzare e rivalutare tutto il Rinascimento meridionale scaturito nei domini spagnoli nel Cinquecento grazie alla nuova temperie raffaellesca; a questa seguì la grande mostra newyorkese dal titolo Retabli. Sardinia: Sacred Art of the Fifteenth and Sixteenth Centueires, tenutasi tra 1993 e 1994.

Tali occasioni hanno permesso di collocare la produzione artistica dei retabli in un panorama più ampio. A tal proposito Benati ha mostrato come anche Federico Zeri si fosse interessato all’argomento: nella sua fototeca si ritrovano infatti varie fotografie di queste opere, ed è significativo che durante una intervista del 1992 relativa alla pittura in Sardegna tra Quattro e Cinquecento egli abbia detto “Il Maestro di Ozieri non è più sardo di quanto Chopin non fosse un compositore polacco”, volendo significare che la sua cultura non si esaurisce in un orizzonte soltanto locale. Se si guarda la produzione del Maestro di Ozieri si noterà come questo artista avesse un ampio spettro di conoscenze che esulavano dal mero “ritardo culturale” in cui si è soliti collocarlo insieme agli altri artisti sardi; egli dimostra di essere sintonizzato su più canali che comprendono la maniera dei grandi centri italiani come anche gli stilemi fiamminghi e tedeschi.

I retabli sono una tipica produzione iberica, grandi opere che uniscono pittura, doratura e carpenteria in una produzione altamente magniloquente. Il corpus giunto fino a noi risulta ormai stabile e assestato in numero e qualità, a parte qualche rara apparizione sul mercato antiquario. Ciò permette di formulare delle valutazioni stilistiche di carattere più ampio e distaccarsi dalla prima valutazione fatta da Corrado Maltese, il quale metteva in luce soprattutto la costante anti-classica di questa produzione, una cultura autoctona sostanzialmente arcaica, cresciuta su sé stessa, ancorata a retaggi sempre gotico-catalani, anche quando entrata in contatto con il Rinascimento italiano.

In realtà tali artisti si dimostrano più complessi rispetto a quanto indicava Maltese: probabilmente hanno viaggiato e hanno sicuramente conosciuto le stampe di provenienza sia italiana che tedesca. I ricordi michelangioleschi e raffaelleschi sono evidenti ad esempio nel Retablo dei Beneficiati del Museo del Duomo di Cagliari, eseguito nel quarto decennio del Cinquecento da una coppia di pittori d’ambito polidoresco e al corrente della maniera post-Logge dei raffaelleschi iberici (non a caso l’opera venne attribuita provocatoriamente da Previtali a Pedro Machuca).

L’arcaismo di cui sono stati accusati in passato tali artisti è frutto della visione italocentrica di molta critica nostrana: Benati ha infatti proposto un confronto presente anche nel libro tra il Maestro del Presepio, autore dell’omonimo retablo nella pinacoteca di Cagliari, il Polittico di Sant’Emidio di Carlo Crivelli del 1473 (Ascoli Piceno, Cattedrale) e il Profeta Daniele del Maestro de San Nicolás (1490 circa, Madrid, Colección Masaveu), da cui si evince come questi tre artisti, apparentemente così lontani, trovino punti di incontro nel rimescolio di forme, idee e stilemi, lungo le rotte del Rinascimento Mediterraneo. La Sardegna, trovandosi infatti al centro di tali ramificate vie di comunicazione (artistiche e commerciali) riceveva e poteva rielaborare i più diversi influssi dalle varie parti di Europa. Tutto ciò mette in crisi la relazione centro-periferia che è stata a lungo proposta da vari storici: se si considera infatti il linguaggio artistico usato da tutta Europa a quelle date, la produzione di retabli in Sardegna rientra perfettamente in tale discorso e perde il carattere di marginalità che le è stato a lungo affibbiato, diventando espressione di una koiné europea a lungo dimenticata a favore delle vette artistiche dei principali centri italiani. Benati inoltre ricorda come il volume si inserisca appieno nella via metodologica tracciata da importanti pubblicazioni quali Napoli e le rotte mediterranee della pittura: da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico (Napoli 1977), di Ferdinando Bologna, e il catalogo della grande mostra, curata da Mauro Natale, El Renacimiento Mediterraneo. Viajes de Artistas e Itinerarios de obras entre Italia, Francia y Espana (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, 31 gennaio - 6 marzo 2011); Valencia, Museu de Belles Arts de Valemcia, 19 maggio - settembre 2001.

Benati ha concluso il suo intervento con uno sguardo al libro, che si divide in una parte saggistica e una di schedatura vera e propria di queste opere, comprese tra l’inizio del Quattrocento e la metà del secolo successivo, lasciando poi la parola all’autrice. Maria Vittoria Spissu ha spiegato il titolo: La via dei retabli si rifà a diciture come quelle relative alla “via della seta” o la “via francigena”, così da svincolare la materia dal regionalismo in cui molti studi l’hanno confinata e inquadrarla in una visione più “allargata”, mediterranea ed europea. I retabli sardi vanno ovviamente ricondotti all’estetica della casa aragonese, in quanto l’isola era al centro dei domini spagnoli, sulla tratta tra la penisola iberica e quella italica, in mezzo a quel Mediterraneo definito da Ferdinando Bologna un “susseguirsi di pianure liquide”.

Nella letteratura precedente sono apparsi grandi nomi in relazione alle opere prodotte in Sardegna, come Grünewald citato da Hermann Voss, a proposito del Maestro di Ozieri, Jean Fouquet a proposito del Retablo di San Bernardino, lo Pseudo-Bramantino o i “comprimari spagnoli della maniera italiana” per spiegare altrettanti forestierismi e italianismi. Non si teneva conto del quadro generale e si sono trascurati i diversi anelli di congiunzione che legano la produzione sarda a tali maestri “d’Oltremare”, cioè i pittori valenzani e catalani che guardavano ai fiamminghi e alla pittura nordica, collezionati dalla casa regnante aragonese, non solo nel Levante spagnolo ma anche a Napoli. Il sostrato gotico usato dai pittori sardi, proprio per questo accusati spesso di arcaismo, era in realtà la lingua artistica comune usata nei domini dei re cattolici, e un esempio è offerto dal Retablo di Sarría (adesso al MNAC di Barcellona), iniziato dal pittore catalano Jaume Huguet e terminato dal Maestro di Castelsardo. Su questo stile tardogotico spesso gli artisti innestavano stimoli provenienti dalla penisola italiana, tanto che possiamo parlare di “Rinascimento gotico” soprattutto in relazione alla bottega dei Cavaro, avvicinati alla lezione proposta nell’Italia Meridionale da Andrea Sabatini, mentre il Maestro di Ozieri ambienta il suo raffaellismo “surriscaldato”, simile a quello di Polidoro da Caravaggio, in un paesaggio nordico memore di Joachim Patinir e Jan van Scorel.

Il fondamentale collegamento con l’arte nei domini aragonesi è stato enfatizzato e confermato in un dialogo tra Daniele Benati e Maria Vittoria Spissu riguardante il Retablo di San Bernardino del 1455 e ora alla Pinacoteca Nazionale di Cagliari: il contratto obbligava i suoi autori, Rafael Tomàs e Joan Figuera, a risiedere nel capoluogo sardo durante l’esecuzione dell’opera. Tomàs e Figuera erano artisti barcellonesi di influenza francese, come si evince dai costumi borgognoni visibili nelle tavole di argomento narrativo del retablo, mutuati da miniature e disegni di area provenzale; i personaggi sembrano infatti esponenti della ricchissima corte di Filippo il Bello a Bruxelles. Questo retablo fu commissionato cinque anni dopo la canonizzazione del santo da parte dei francescani, ordine religioso fondamentale per la diffusione del linguaggio di impronta aragonese nei domini spagnoli. Tale uniformità artistica rientrava in un più complesso piano di “aragonesizzazione” delle province, e in particolare della Sardegna, che i re cattolici operarono attraverso l’ordine mendicante per eccellenza.

Una domanda del pubblico ha permesso un approfondimento sulle tecniche. Si chiedeva infatti da dove provenissero i materiali per produrre i retabli; trattandosi di botteghe itineranti, i pigmenti viaggiavano con gli artefici, come ben spiega Maria Vittoria Spissu anche in un saggio di approfondimento all’interno del volume.

L’argomento di cui si occupa il libro non è molto trattato in Italia al di fuori dell’ambito regionale in cui viene normalmente inserito. Più consistente invece l’interesse degli studiosi stranieri che si occupano di Rinascimento Mediterraneo e di pittura Flandro-Iberica, come pure della Fondazione Getty che ha deciso di finanziare una nuova stagione di studi all’interno del progetto “Spanish Italy and Iberian Americas”. La presentazione con l’autrice ha offerto un ottimo inquadramento generale e una preziosa occasione di approfondimento su una materia poco conosciuta per molti dei partecipanti all’incontro, e ciò conferma la grande importanza culturale di questi eventi sia per gli studenti che per i semplici curiosi.