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Con la coda dell'occhio

Articolo redatto da Beatrice Ricci e Francesca Musiari in occasione dell'incontro con la fotografa Marina Ballo Charmet nel contesto de "I mercoledì di Santa Cristina".

18 aprile 2018


Con la coda dell'occhio
Beatrice Ricci e Francesca Musiari

Nel corso de “I Mercoledì di Santa Cristina” il 18 aprile l’Aula Magna del Dipartimento delle Arti ha ospitato la fotografa Marina Ballo Charmet. Grazie alla presentazione e alle domande di Claudio Marra il pubblico ha potuto conoscere il suo lavoro e cogliere da vicino la poetica e le ragioni delle sue creazioni artistiche. L’occasione che ha dato spunto alla conferenza è stata la recente pubblicazione del libro “Con la coda dell’occhio. Scritti sulla fotografia”, edito da Quodlibet.

 

Marina Ballo Charmet sostiene che la scrittura sia stata l’occasione per riflettere a posteriori sul proprio lavoro, sulla sua educazione e su tutte le influenze assorbite prima di sperimentare la fotografia. L’artista ha ripercorso la propria infanzia nella Milano degli anni ’50: figlia del noto critico d’arte e poeta Guido Ballo, è cresciuta circondata da artisti e ha descritto la casa dei genitori come un vivo punto di incontro; frequenti, infatti, erano le visite di Lucio Fontana, Mario Schifano, Gianni Colombo.

Oltre all’arte e alla pittura fu fondamentale per Marina Ballo anche la conoscenza di un altro linguaggio artistico: quello del cinema. Tra serate con artisti, mostre e appuntamenti in cineteca, l’immaginario visivo di Marina Ballo, così articolato e unico, si è ampliato e sedimentato nel suo occhio.

 

Dopo una laurea in filosofia e una specializzazione in psicoterapia infantile, sono passati diversi anni prima che Marina Ballo Charmet si sia avvicinata a livello professionale alla macchina fotografica; è stato soltanto alla metà degli anni ’80, infatti, che ha deciso di dedicarsi alla fotografia a tempo pieno. Fin dall’inizio l’occhio dell’artista si è abbassato alla ricerca di un punto di vista che non sia antropocentrico; con una curiosità spiccatamente infantile Marina Ballo ha fatto emergere un rapporto di indagine e di sincera ricerca nei confronti della realtà.

La fotografa ha raccontato la genesi di alcune immagini e di come spesso mentre lavora non abbia in mente un esito da raggiungere, ma si lasci trasportare dal desiderio di rendere al meglio l’atmosfera e l’anima racchiusa nel soggetto prescelto. Ad esempio, trovandosi un giorno sul Delta del Po, Marina Balbo sentì l’impulso di immortalare quel paesaggio nuvoloso così come le appariva in quel momento, senza preoccuparsi di una precisa composizione formale e delle condizioni perfette.

 

La macchina fotografica viene così percepita non come filtro e presa di distanza dalla realtà, ma come uno strumento di comprensione profonda. L’istinto allora prevale sulla razionalità e sulla forma. Il fotografo, secondo Marina Ballo, funge da specchio e restituisce il senso di ciò che ritrae.

Con il titolo “Il limite” prende vita uno dei primissimi progetti di Marina, realizzato tra il 1989 e 1990, in cui l’artista sperimenta una pluralità di linguaggi, adottando anche lo strumento del video, concepito come “immagine che respira”. Nel comporre le sequenze vengono accostati diversi scorci e riprese, con l’obiettivo di riprodurre la mobilità del colpo d’occhio e la casualità della percezione umana. Marina Ballo lavora per ricreare dei salti narrativi, senza imporre al pubblico una direzione di lettura prestabilita.

In seguito diventa caratterizzante nella sua opera l’elemento del rimosso, tutto ciò che non è esteticamente bello e che l’occhio umano non nota e registra.

Nel 1996 porta avanti un progetto intitolato “Rumore di fondo”, ispirato alla poetica del frammentario e del periferico, ove documenta e fotografa piccoli dettagli, stipiti di porte, le pieghe di un abito, incrostazioni di intonaco; muovendo l’obiettivo in tutte le direzioni apre lo spazio e assume un punto di vista sempre inaspettato. Gli scatti diventano così dei fermo-immagine della quotidianità, che tutti possono poi ritrovare nella propria esperienza prestando attenzione al contesto circostante.

 

Nel lavoro “Con la coda dell’occhio” Marina Ballo sviluppa la ricerca già avviata: l’intento non è la formalità, ma far emergere l’esperienza umana, per cui con una sensibilità, derivata anche dalla sua formazione, abbassa l’obiettivo all’altezza di un bambino e da questa prospettiva fotografa tutto ciò che la visione antropocentrica e adulta lascia in ombra. Appaiono grandi marciapiedi, grate, oggetti lasciati in strada. Al centro non vi è più l’occhio dell’artista, ma uno sguardo animale acquattato tra gli spazi urbani, pronto a instaurare un nuovo rapporto con la natura. L’idea di abbassare il punto di vista rispetto al canonico 180 cm, da cui tutto appare così “pronto all’uso”, comporta una messa in discussione della razionalità con cui concepiamo lo sguardo umano.

 

Le fotografie sono state esposte a New York in occasione della mostra “Bodyscape and Cityscape” e volutamente allestite più in basso rispetto alla normale altezza di fruizione, con l’obiettivo di restituire allo spettatore l’esperienza vissuta dall’artista e il reale rapporto con l’oggetto. Marina Ballo adotta, inoltre, un grande formato (1mX1m) per concentrare maggiormente l’attenzione su tutto ciò che è rimosso, con il tentativo di restituire centralità a quanto si considera meno rilevante.

 

Il dialogo con Marina Ballo Charmet è stata una preziosa occasione per riflettere sul significato e le potenzialità della fotografia oggi, strumento efficace per scrutare la realtà nel dettaglio e scoprire una profonda intimità tra la sensibilità umana e la natura.

Il confronto diretto con l’autrice delle fotografie ha permesso di comprendere profondamente i retroscena degli scatti; con le sue parole ha coinvolto l’assemblea nella sua storia personale e di artista rivelando come fotografia e vita siano unite in un legame stretto: ogni opera è frutto dello sguardo della fotografa e ne rivela l’intimità, riuscendo allo stesso tempo a rendere lo spettatore parte della storia.

La proposta de “I mercoledì di Santa Cristina” si è dimostrata arricchente e stimolante proprio perché il pubblico ha avuto la possibilità di avvicinarsi ad un lavoro fotografico di respiro internazionale tramite le parole dell’artista stessa, in un incontro molto coinvolgente e intimo.