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Earthworks e Land Art. Il paesaggio americano tra sublime e entropia

Articolo redatto da Viviana Annio e Ornella D'Agnano per la rubrica CollegARTI in occasione della conferenza del professor Marco De Michelis nel contesto de "I mercoledì di Santa Cristina".

21 febbraio 2018

 

Earthworks e Land Art. Il paesaggio americano tra sublime e entropia

Conferenza di Marco De Michelis

Viviana Annio e Ornella D'Agnano

 

Mercoledì 21 febbraio 2018, in occasione dei “I mercoledì di Santa Cristina”, nell’Aula Magna dell’omonimo complesso monumentale si è svolta la conferenza di Marco De Michelis dal titolo "Earthworks e Land Art. Il paesaggio americano tra sublime e entropia", presentata da Anna Rosellini.

Marco De Michelis è stato a lungo ordinario di Storia dell'Architettura presso l’Università IUAV di Venezia e - al suo interno - uno dei fondatori della Facoltà di Design e Arti, nonché preside dal 2001 al 2008. Ha, inoltre, insegnato in prestigiose università estere in Europa e negli Stati Uniti. Accanto a questa attività si è dedicato alla curatela di mostre ed è stato direttore della Galleria della Triennale di Milano dal 1993 al 1996. Nel 2008, ha curato la mostra Il sublime è ora anticipando uno dei temi chiave - quello del sublime - trattati durante la conferenza. Studioso di riferimento per tutti coloro che si occupano di ricerca sul rapporto tra arte e architettura, Marco De Michelis ha scritto diversi saggi sull’argomento.

Nella sua comunicazione ha discusso, in particolare, di opere d’arte che rientrano all’interno di un “movimento-non movimento”, la Land Art Americana, sviluppatosi tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ’70 del XX secolo. I protagonisti non si riconoscevano come esponenti di questa corrente e non ne amavano la definizione, riferendosi alle proprie realizzazioni come Earth Works: lavori di terra, sculture di terra. Marco De Michelis, infatti, parla di operazioni scultoree ma site specific, poiché nascono da una precisa scelta e interpretazione dei luoghi, che devono essere distanti, lontani da tutto e soprattutto dalle metropoli. La fruizione esige un viaggio, che entra esso stesso a far parte dell’opera.

L’incontro si è focalizzato, in particolare, su Walter De Maria, Michael Heizer, Robert Smithson e James Turrell. Nel 1974, in un altopiano semidesertico dell’Arizona, Walter De Maria completò la prima versione provvisoria di quella che poi sarebbe diventata la sua opera più famosa: "The Lightning Field", il cui difficile titolo si può tradurre come “terreno luminoso”, “terreno fulminante”, costituita da 35 pali di acciaio inossidabile appuntiti verso l’alto, organizzati in una griglia in cui ogni elemento è distanziato dall’altro di circa 60 metri. Per fornire una prima chiave di lettura, Marco De Michelis ha proposto il punto di vista di Lawrence Alloway - uno dei critici d’arte più influenti di quegli anni - che nel 1976 ha visto l’opera definendola “una versione ridotta all’osso della piattaforma spaziale dell’arte rinascimentale” e, rispetto alla sua esperienza della fruizione: “I pali appaiono indistinti e c’è bisogno di qualche tempo per essere sicuri che siano lì. Il miraggio si solidifica gradualmente. Il lento approccio è necessario per permettere alle forme di svelarsi gradualmente, ma persino quando raggiungi il luogo, l’illusorietà non è del tutto dissolta”. Il movimento e il tempo sono, dunque, elementi importanti per la completa comprensione di "The Lightning Field", al punto che Marco De Michelis ama definirla “una macchina spazio-temporale”. L’effetto sorprendente si ha al mattino quando i raggi del sole colpiscono tangenzialmente i pali: tutta l’opera si illumina, mostrando finalmente le sue misure, in modo trionfale. Nel 1977 l’artista riuscì a completare l’opera, la cui scala è molto più grande e complessa del prototipo: l’area della griglia, costituita da 400 pali di acciaio inossidabile appuntiti verso l’alto, si estende per un miglio da est ad ovest e per un chilometro da sud a nord, in un altopiano desertico del New Mexico.

Marco De Michelis ha raccontato l’esperienza alla scoperta di "The Lightning Field". Possono visitarla al massimo sei persone per volta, compiendo un viaggio nel deserto e accettando alcune condizioni, ad esempio: non è possibile scattare fotografie e vi si deve rimanere 24 ore, quindi passare una notte in una piccola dimora di legno, avendo come interlocutori solo le 400 aste d’acciaio. Non si può fare altro che avvertire lo scorrere del tempo, le condizioni meteorologiche, il variare della temperatura e delle percezioni, poiché sino a quando il sole è alto in cielo, l’osservatore non riesce a scorgere che pochi pali, talvolta uno soltanto, considerando la grande distanza che li separa. Ci si può avvicinare e rendersi conto della scala che si crea tra l’altezza dell’uomo e quella degli elementi dell’opera, osservare la perfezione dell’acciaio che, così come desiderava l’artista, non mostra alcun segno di ruggine nonostante gli anni passati alle intemperie. L’idea di pericolo legata all’aspetto minaccioso dei pali appuntiti e alla conseguente proprietà della fitte rete di attirare i fulmini, era stata progettata consapevolmente dall’artista e rientrava nella narrazione.

Marco De Michelis ha poi parlato di "Double Negative", di Michael Heizer, realizzata a cavallo tra 1969 e 1970. È una scultura fatta solo per “via di levare”, composta da due scavi sul bordo di una piattaforma desertica del Nevada, separati da una voragine. Ciascun taglio è profondo 17 metri e largo 10; la lunghezza totale dell’opera è di circa 500 metri. Una delle più influenti critiche dell’arte americana di quel periodo, Rosalind Krauss, ha affermato che, a causa del luogo in cui si trova e delle enormi dimensioni, l’unico modo per fruirne è starvi dentro, abitarla. Heizer stesso, una volta terminata l’opera, disse che era tanto grande da aver assunto la scala di un edificio: era come se fosse stato scavato il negativo di un’abitazione. Così, involontariamente, egli aveva congiunto arte e architettura.

Terzo protagonista della conferenza è stato l’artista americano Robert Smithson, con "Spiral Jetty", grande spirale di sassi appena affiorante dall’acqua del lago salato dello Utah, realizzata sempre tra il 1969 e il 1970 e concepita fin dall’inizio sia come lavoro materiale - scultura di sassi e d’acqua - sia come lavoro cinematografico; il film e l’opera, realizzati contemporaneamente, sono in un rapporto di complementarietà.
L’artista era interessato ai laghi salati per la peculiare composizione minerale delle acque che determina particolari fenomeni chimici; ad esempio, in questo caso, la colorazione appare rossastra come “una zuppa di pomodoro”. La spirale era stata scelta da Smithson per il suo carattere “fluttuante”, che variava a seconda del punto di osservazione dello spettatore, proponendo come caratteristiche dell’opera complessità e ambiguità: ogni cambiamento di orientamento del corpo dell’uomo corrisponde ad un cambiamento di luce, di sfondo, di colore dell’acqua e di riflesso del sole. Se si osserva la spirale ad altezza d’occhio questa risulta quasi impercettibile, essendo poco sporgente dal lago; se la si percorre, se ne viene quasi inghiottiti; per poterne avere una visione totale, occorre sollevarsi e guardarla dall’alto. Dopo soli due anni dalla creazione "Spiral Jetty" era stata sommersa dall’innalzamento del livello dell’acqua e dal 1995 l’opera era di nuovo percorribile, ma si presentava diversamente: i sassi erano ricoperti di cristalli di sale e quindi avevano cambiato colore. Nel 2002 è stata nuovamente sommersa per poi riemergere e ad oggi è visibile e visitabile. Robert Smithson aveva previsto che gli effetti dell’entropia – altra parola chiave della conferenza - entrassero a far parte dell’esperienza dell’opera.

Un aspetto fondamentale degli earthworks è il modo in cui furono concepiti; sia Robert Smithson che James Turrell erano due aviatori e, in quanto tali, potevano godere di una prospettiva dall’alto, a volo d’uccello. La prima tappa della realizzazione di "Spiral Jetty" fu un volo aereo in cui l’artista percorse il perimetro del lago alla ricerca del punto ideale in cui collocare la spirale e, sempre attraverso riprese dall’alto, nacque il film; allo stesso modo Turrell andò in Arizona nel pieno del cosiddetto Deserto Dipinto alla ricerca del vulcano protagonista di Roden Crater, mappando letteralmente il territorio del sud ovest americano con un piccolo aereo. Il complesso progetto prevedeva che il vulcano venisse trasformato in una serie di ambienti, rampe e camminamenti ciascuno dedicato ad un determinato effetto ottico legato ad una particolare condizione celeste.
L’artista californiano ha iniziato il progetto nei primi anni ’70 e, ad oggi, non si presenta ancora ultimato, rendendo l’opera talmente tanto monumentale dal punto di vista storico-temporale da uscire quasi dai confini della vita di un uomo.

Le tre opere analizzate da Marco De Michelis sono accomunate dal periodo e dal luogo di realizzazione (fine anni ’60 – inizi anni ’70, nel West Americano) e dal fatto che il punto di partenza è l’analisi del paesaggio, tradizionalmente il luogo dove l’artista poteva cogliere più profondamente un senso di origine, rispetto alla condizione storica che viveva. Esso può rappresentare, inoltre, una condizione di nuovo inizio al di fuori dei luoghi tradizionali della civilizzazione moderna. Non si è trattato però di una fuga romantica verso luoghi pittoreschi e facilmente abitabili, bensì lontani da tutto e deserti e va intesa all’interno di un contesto che è quello del mercato dell’arte basato sulla produzione e sul consumo dell’arte contemporanea. Questi artisti hanno creato, infatti, opere invendibili e non esponibili, anche se il sistema dell’arte degli ultimi anni ’60 ha in realtà compreso e sostenuto questo tipo di arte, con mostre come quella del 1968 dal titolo Land Art, in cui i lavori vennero presentati sotto forma di riproduzioni fotografiche.
L’incontro si è chiuso con il tema del sublime partendo da Edmund Burke, colui che l’ha definito, già nel 1757, come un sentimento di meraviglia, sospensione delle emozioni e terrore, che si prova davanti alla grandiosità della natura.

Marco De Michelis è poi passato alla figura di Robert Rosenblum, esperto della pittura di paesaggio del ‘700 e critico che si è occupato di Land Art applicandovi il concetto di “sublime”, che affermò: “Gli earthworks sono sicuramente gli sforzi più spettacolari e romanticamente eroici di stabilire un contatto mistico tra gli artisti e il grande universo del cielo e della terra”, gli artisti sono come “pellegrini del sublime che si liberavano dai confini dei musei e delle gallerie per arrivare ai confini estremi della terra per tracciare un segno umano”. L’aspetto che accomuna queste opere è la dimensione del viaggio, che implica un allontanamento da tutto e tutti. Walter De Maria affermava che “L’isolamento è l’essenza della Land Art ”, infatti il fruitore è portato a misurare la propria solitudine rispetto al luogo, lontano e deserto, e all’opera, di dimensioni colossali.

Si è trattato di un incontro molto coinvolgente che ha permesso a studenti, docenti e appassionati di “partire per un viaggio” alla scoperta di opere dai significati nascosti, accompagnati dalle parole, seducenti e illuminanti, di Marco De Michelis. ​​​