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Il fenomeno della donna artista a Bologna: nuovi spazi interpretativi

Articolo redatto da Matteo Cappellotto e Maria Delpriori

23 Marzo 2022

 

Il fenomeno della donna artista a Bologna: nuovi spazi interpretativi

Matteo Cappellotto e Maria Delpriori

Elisabetta Sirani, Allegoria della pittura (autoritratto?), 1658, olio su tela, The Pushkin State Museum of Fine Arts, Mosca.

Il 23 marzo 2022, nell’ambito del ciclo di incontri “I Mercoledì di S. Cristina”, si è tenuta la conferenza Il fenomeno della donna artista a Bologna: nuovi spazi interpretativi, occasione per riportare tra le mura del Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna un tema particolarmente caro a molte studiose e studiosi che si sono dedicati alla storia dell’arte in questa città. È stata ospite la statunitense Babette Bohn, docente presso la Texas Christian University di Fort Worth ed autrice nel 2021 del volume Women Artists, Their Patrons, and Their Publics in Early Modern Bologna, testo vincitore del prestigioso Prose Award (Art History & Criticism) conferito dalla Association of American Publishers.

Ad introdurre l’incontro sono state due tra le protagoniste della riscoperta storiografica del singolare fenomeno bolognese delle donne artiste in età moderna: Vera Fortunati e Irene Graziani. La commozione di Vera Fortunati ha rappresentato un momento eloquente per trasmettere al pubblico l’importanza che queste ricerche hanno assunto nel corso degli anni: «Nel 2022 parlare delle donne artiste a Bologna significa parlare di studi in cui …. i ricordi vanno lontano, e il libro di Babette apre a nuove metodologie su un argomento che è nato nell’Istituto di Storia dell’arte di Via Zamboni n. 33, è trasmigrato nel chiostro di Santa Cristina ed oggi vive nel Texas».

È a Bologna, infatti, che l’indagine su questo tema ha avuto inizio, portata avanti da una équipe di storici dell’arte che adottarono la metodologia ispirata dalla mostra tenutasi a  Los Angeles nel 1976 Woman Artists: 1550-1950 - curata da Linda Nochlin e Anna Sutherland Harris - basata su un attento studio filologico dei documenti e delle opere, illuminata ma non offuscata dalle ideologie femministe, dove una particolare considerazione venne riservata agli aspetti culturali e antropologici della condizione femminile in età moderna, allontanandosi da narrazioni ritenute anacronistiche.

Grazie al lavoro di squadra organizzato da Fortunati e attraverso un percorso di studi costellato di tesi di laurea, conferenze, mostre monografiche e pubblicazioni, sono riemersi nel corso dei decenni i profili di artiste bolognesi vissute tra il XV e il XVIII secolo: dalla figura della mistica e miniatrice medievale Caterina Vigri alla prima scultrice dell’età moderna Properzia De’ Rossi; da Lavinia Fontana, pittrice in bilico tra la Controriforma di Gabriele Paleotti e la rivoluzione scientifica di Ulisse Aldrovandi, a Elisabetta Sirani, una delle poche pittrici felsinee ad essere stata da subito celebrata e ricercata dai collezionisti anche come disegnatrice.

Solo in tempi più recenti a tali studi si sono aggiunti approfondimenti su temi specifici della produzione profana di queste artiste: Daniele Benati nel 2002 ha messo in luce la connotazione erotica di due dipinti di Lavinia Fontana ritraenti rispettivamente Minerva in atto di abbigliarsi e Venere omaggiata da due amorini, dove l’autrice indugia su precisi dettagli del corpo femminile, denunciando una ripresa diretta dal vero. Scoperte come questa ci permettono di considerare con occhi nuovi la competenza delle donne artiste nella raffigurazione del nudo, campo nel quale non potevano contare sull’esercizio del disegno dal vero, al quale avevano invece accesso i colleghi uomini nell’ambito delle accademie.

Il più recente approdo di questi studi è rappresentato dal volume di Babette Bohn, che ha aperto a interessanti spunti anche per il futuro, in particolare per quanto riguarda la possibilità di ricostruire profili storici oggi dimenticati ed elaborare corpus di opere ancora sconosciute: basti pensare al ricco apparato finale del testo, comprendente un elenco di pittrici, scultrici, miniatrici, autrici di incisioni e ricamatrici citate dalle fonti ma delle quali, purtroppo, non sono ancora riemerse opere certe. Approfondite ricerche archivistiche hanno permesso all’autrice di reperire nuove informazioni e definire sessantotto biografie; la lettura delle fonti storiografiche è stata accompagnata dall’analisi della fortuna critica riscontrata dalle artiste, prendendo in esame l’apprezzamento delle loro opere da parte dei collezionisti e riscontrato nella letteratura artistica.

Babette Bohn, che si è dedicata alla storia dell’arte bolognese studiando soprattutto la produzione grafica dei Carracci e di Guido Reni, ha considerato il fenomeno felsineo nella sua complessità. Se a diverse artiste bolognesi sono stati dedicati singoli sforzi monografici, nessuno prima del suo contributo aveva trattato il fenomeno su larga scala, prendendone in esame le caratteristiche che lo distinguono dal contesto delle altre città italiane. A Bologna, infatti, le donne erano considerate vere e proprie professioniste nel campo dell’arte, come testimoniano le più importanti biografie di artisti bolognesi redatte da intellettuali e studiosi quali Cesare Malvasia o da storici dell’arte e artisti quali Luigi Crespi, veri e propri iniziatori di un atteggiamento nuovo nei confronti della professionalità femminile, che partiva dall’analisi della loro fortuna presso i contemporanei e delle loro opere d’arte, senza concentrarsi sulla loro vita personale e sugli aneddoti legati al genere, come avveniva di frequente al fuori dal contesto bolognese. Un esempio per tutti quello di Giorgio Vasari che inserì un’unica biografia femminile nella prima edizione delle Vite, quella di Properzia De’ Rossi, caratterizzata dal racconto aneddotico sulla vicenda drammatica della donna, senza considerarne il ruolo pioneristico di prima scultrice incaricata, nel 1525-26, di una importante commissione pubblica, il rilievo in marmo per la facciata della chiesa di San Petronio.

I molti incarichi pubblici affidati in ambito bolognese giustificano l’alto tasso di sopravvivenza delle loro opere, a differenza di quanto avvenne del resto dell’Italia dove, solitamente, le artiste erano attive quasi esclusivamente per una committenza privata e si occupavano spesso di generi ritenuti minori, come ritratti, nature morte e miniature, opere delle quali facilmente si possono perdere le tracce nel corso dei secoli, poiché soggette a molteplici passaggi di proprietà.

Di grande interesse è la pratica di firmare i propri lavori, attuata dalle artiste bolognesi come strumento di autopromozione, che ha permesso agli storici dell’arte di riconoscere diverse opere come autografe. Elisabetta Sirani ne firmò circa il 70%, Lavinia Fontana il 50% e Lucia Casalini Torelli un terzo dei suoi dipinti, a differenza del marito Felice Torelli che ne firmò pochissimi, a testimonianza del fatto che per molti artisti uomini, potendo contare su una consolidata reputazione pubblica, non era fondamentale dichiarare la paternità delle proprie opere. In alcuni casi la disposizione delle firme raggiunse una raffinatezza studiata, come in Allegorie di carità, giustizia e prudenza (1664), dove Elisabetta Sirani appose il suo nome sui bottoni dell’abito indossato dalla figura allegorica centrale. Questa tendenza serviva a “smontare” le allusioni di chi non credeva fossero davvero loro le autrici delle proprie opere, attribuendole invece a padri, fratelli o mariti. La presa di posizione attraverso la firma potrebbe essere paragonata ad un’altra tendenza riscontrata in diverse artiste bolognesi, ovvero l’affermazione della consapevolezza del loro valore della propria coscienza artistica attraverso l’autoritratto. È il caso di Elisabetta Sirani che si ritrae con il pennello e la tavolozza dei colori in mano nell’Allegoria della pittura (1658) conservata a Mosca; oppure di Lucia Casalini Torelli che nell’Autoritratto (1720-1725 ca.) degli Uffizi presenta allo sguardo dell’osservatore gli strumenti di lavoro in primo piano.

La conferenza ha offerto alcune interessanti considerazioni sui disegni eseguiti da donne artiste, raramente collezionati per la riluttanza tipica dell’età moderna di riconoscere loro la capacità di invenzione e “sprezzatura”. Un caso eccezionale è rappresentato dall’ammirazione di Cesare Malvasia per i disegni acquerellati di Elisabetta Sirani, autrice anche di studi preparatori a matita rossa. La conseguenza di questo atteggiamento critico fu l’interesse manifestato dai collezionisti: negli inventari bolognesi del Settecento il nome della Sirani appare frequentemente, superato solo dai disegni di Guercino, Simone Cantarini e Guido Reni. Più evidente la presenza delle donne nel mondo dell’editoria: Veronica Fontana fu autrice di illustrazioni per almeno otto libri alla fine del XVII secolo, tra cui un’edizione della Felsina pittrice. In alcune stampe la presenza della firma dichiara la sua responsabilità anche per l’invenzione e il disegno.

L’incontro si è concluso sottolineando quanto ci sia ancora da indagare su numerose questioni. Per quanto riguarda i problemi di attribuzione si è ricordato il caso di Lucrezia Scarfaglia, artista della quale non è sopravvissuta la maggioranza delle opere; recentemente sono emerse nuove proposte, come l’Allegoria della pittura passata in asta presso Wannenes nel 2018, ma a causa dell’assenza di documenti rimane molto da scoprire. Restano numerosedomande anche su possibili botteghe a gestione femminile, come quella di Lavinia Fontana a Roma. Vera Fortunati e Irene Graziani nel ringraziare Babette Bohn, il cui fondamentale contributo ha consentito di portare queste indagini all’attenzione degli studi internazionali, hanno concluso con un invito alla ricerca rivolto ai giovani, ricordandone il carattere interdisciplinare, al limite tra storia dell’arte, antropologia, storia della religiosità e della spiritualità.