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Mauro Carbone – Dei modi d’esistenza dell’archi-schermo. Il corpo e altri templa della visione.

Articolo redatto da Annalaura Puggioni per la rubrica collegArti in occasione dell'incontro con Mauro Carbone nel contesto de "I mercoledì di Santa Cristina"

06 marzo 2019

Mauro Carbone – Dei modi d’esistenza dell’archi-schermo. Il corpo e altri templa della visione.

Annalaura Puggioni

Per la rassegna “I Mercoledì dell’Arte” Lucia Corrain ha invitato Mauro Carbone, professore ordinario di Filosofia presso l’Université Jean Moulin Lyon 3, membro senior dell'Institut Universitaire de France dal 2012, uno tra i più importanti specialisti della filosofia di Merleau-Ponty. Nel 1999 ha fondato la rivista Chiasmi International – pubblicazione trilingue intorno al pensiero di Merleau-Ponty – e dal 2002 dirige la collana italo-francese L’occhio e lo spirito per le edizioni Mimesis. Attualmente le sue ricerche sono concentrate sui rapporti tra l’esperienza visuale e la filosofia.

La conferenza dal titolo ‘Dei modi d’esistenza dell’archi-schermo. Il corpo e altri templa della visione’, ha introdotto argomenti che si intersecano nella riflessione sulla “filosofia-schermi”. Considerando che la nostra esperienza degli schermi ha attraversato e non cessa di registrare mutazioni profonde, capaci di influenzare, modificandole a loro volta, le nostre maniere di percepire, desiderare, conoscere, pensare, Carbone è dell’idea che “sarebbe opportuno elaborare un’antropologia delle esperienze schermiche, in grado di spiegare quanto la cultura umana sia attraversata dai rapporti con quelle particolari superfici: operazione necessaria per capire come gli schermi ci influenzano nell’esperienza del mondo.” 

A partire dall’inizio del xv secolo l’uomo ha concepito la visione sulla base della finestra, come precisa L.B. Alberti, finestra che ha offerto la precomprensione della nostra esperienza schermica. Cosa si intende per schermo? Non certo solo quello del cinema, dei computer o del telefono, ma anche la parete della grotta dell’uomo preistorico e la tela di un quadro. Con schermo Carbone intende una superficie che si investe di una pluralità di statuti in quanto presentatrice di immagini. “Schermo” per la filosofia tradizionale era una superficie che impediva di vedere attraverso di essa ma è divenuto, per opacità, qualcosa che mostra e consente di vedere il manifestarsi del mondo.

In Francia, quando si parla di schermo, il riferimento immediato va a Deleuze il quale crede che “il cervello sia lo schermo”. Rovesciando questa affermazione Carbone propone di considerare il corpo come la prima manifestazione di schermo in relazione al fatto che il corpo è stato il primo produttore d’ombra. A confermare questa ipotesi sono due testi della cultura occidentale: la Naturalis Historia (77-78 d.c) di Plinio il Vecchio, dove si narra il mito dell’origine della pittura a partire dall’ombra e La Repubblica (390 e il 360 a.C.) di Platone, dove è raccontato il mito della caverna e dove si ricorda che le ombre costituiscono una proto-immagine. Si individuano qui due schermi per fare un’ombra: un corpo, che si pone come schermo negativo, la fonte luminosa, e la superficie che funziona come schermo positivo che manifesta l’ombra. Trova in questa centralità dell’ombra il divenire protesi del corpo: l’uomo ha cercato di produrre artefatti in grado di generare altre ombre che non provenissero dal suo corpo. Lo schermo è dunque una protesi, un’oggetto tecnico che l’uomo ha usato come estensione e prolungamento della propria corporeità. Queste mutazioni, simili alle variazioni di un tema musicale, attraversano la storia della “mostrazione” e dell’occultamento.

Risalendo all’etimologia greca della parola ombra, σκιά (skià), si constata che essa ha la stessa radice della parola σκηνή (skēnḕ), scena teatrale; mentre alla parola "schènos", il termine con cui si designa la tenda, si attribuisce il significato di “corpo come tempio dell'anima", per dirla con Ippocrate. La tradizione sacerdotale di attribuire a uno spazio una sacralità, si determinava tirando una tenda che separava quanti avevano il diritto di accedere alla zona sacra da quelli che non potevano farlo. In questo caso impedire lo sguardo, o l’accesso, sovra significa il visibile poiché è proibito vedere cosa è nascosto. Il velo albertiano è, al contrario, l’esempio positivo, giacché consente allo sguardo di passare attraverso di esso.

Mauro Carbone si è soffermato sulle ricerche dello storico Michel Lorblanchet riguardanti l’arte rupestre che hanno permesso di capire come l’uomo usasse la sua stessa mano come schermo per “inquadrare” e proteggere quella porzione di muro che non doveva essere intaccata dal colore. Quella mano, con il progredire delle abilità e della tecnologia, è stata sostituita dalla pelle lavorata degli animali perché più consona al compito. La “mano-schermo” si stacca dal corpo, si esteriorizza, diviene l’oggetto tecnico che può essere considerato un “antesignano” del velo. Carbone ha suggerito di interpretare la radice della parola pelle (dal lat. pellis) come velo, dal momento che “pel” è anche la sua radice (dal greco πέπλος, peplos). Un filo rosso parrebbe legare insieme corpo-pelle-velo.

 

Il relatore ha riflettuto sulla seconda parte del titolo: “gli altri templa della visione”. Il termine latino templum – corrispondente di τέμενος, dal verbo greco τέμνω (tagliare) – era usato dagli aruspici romani per descrivere il quadrato o il rettangolo che disegnato nel cielo, consentiva loro di selezionarne una porzione per leggere e interpretare il movimento delle aquile. I templa sono quei luoghi in cui quello che vediamo acquista un significato particolare: una cosa simile accade a noi con gli schermi di cui disponiamo oggi. Inoltre, il gesto di “inquadrare il cielo” degli aruspici non è tanto diverso da quello di Alberti che incornicia il mondo tramite il suo velo.

Carbone ha ricordato che in Visibile e invisibile Merleau-Ponty chiama in causa una volta lo schermo e una volta il velo quando parla delle idee sensibili di Proust le quali “non potrebbero essere viste senza veli” dal momento che “non c’è visione senza schermo”. Sono fondamentali alcune considerazioni sulle differenze nel rapporto tra superficie e fonte luminosa e nel rapporto con l’osservatore: il velo è parzialmente opaco e si interpone tra chi osserva e l’oggetto osservato, dunque la fonte luminosa può essere dalla parte opposta; invece lo schermo è completamente opaco e la fonte luminosa sta alle spalle di chi osserva. Ne consegue – secondo Carbone – che quando ci troviamo difronte allo schermo non si parla più, come credeva la filosofia, dell’aldilà delle cose sensibili, della metafisica.

Una delle rivisitazioni più contemporanee del corpo come proto-schermo è la proiezione sul corpo dello stesso regista delle immagini de ‘Il Vangelo secondo Matteo’ di Pier Paolo Pasolini che Fabio Mauri realizza nel 1975. “La cinematografia usufruisce contemporaneamente dello schermo negativo e positivo, ovvero della pellicola e dello schermo in sala, ma la storia dello schermo ha subito una battuta d’arresto quando la pellicola è stata sostituita dal digitale e ha inaugurato una nuova propensione dell’esternalizzazione, non della corporeità ma della memoria che i computer, nostri delegati, sono deputati ad accogliere e conservare”.

Al contrario di Merleau-Ponty - il quale afferma che l’immagine è una copia del reale - Carbone sostiene che lo schermo cinematografico, presentandoci un evento nel momento in cui accade, permette di “entrare” in esso coinvolgendoci sensorialmente. A questo proposito è necessario citare la televisione come lo schermo più tradizionale che ha reso l’intero mondo una platea di testimoni oculari soprattutto con gli eventi dell’undici settembre. Propria dello schermo è la peculiarità interattiva, e patemica, che condiziona il nostro rapporto con le immagini. Come le immagini “hanno una vita” lo stesso vale anche per gli schermi. Nel loro essere divenuti mobili, tattili, interattivi e immersivi, hanno cambiato il nostro rapporto con le immagini e hanno mutato la nostra concezione dell’immaginare, del pensare e del conoscere. Ciò significa che ci sono mutamenti ontologici che passano attraverso la storia e si sedimentano a livello estetico-sensibile.

“La tendenza verso la quale ci stiamo avviando è quella della virtualità che ci consentirà di vedere immagini a una distanza adeguata: la Virtual Retinal Display è una tecnologia che consente di proiettare le immagini direttamente sulla retina e di visualizzarle fluttuanti nello spazio davanti a sé”. Questo rapporto privilegiato con gli schermi ha portato Carbone a chiedersi se si possa parlare ancora di noi in termini di “individui”. “Siamo davvero indivisibili come il termine individuo suggerisce, oppure l’introduzione degli schermi non fa pensare alla pluralità, a una novità ontologica, tale per cui diveniamo “dividuo”?

La discussione che ne è seguita ha visto numerose domande rivolte al relatore, ed è stata la prova dell’interesse del pubblico per il tema degli schermi. Tra gli interventi, alcuni hanno portato a incrementare il numero degli esempi di schermo: si è citato il dagherrotipo quale schermo positivo e negativo al contempo; i pixel come una “traduzione più aggiornata” della quadrettatura albertiana, passata metaforicamente attraverso la tecnica del pointillisme.