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Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano

Articolo redatto da Alessandra Ciotti per la rubrica collegArti in occasione della presentazione della mostra a cura di Luca Massimo Barbero.

17 maggio 2018

Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano

Alessandra Ciotti

Protagonista della giornata conclusiva del ciclo Incontri in Biblioteca 2018, tenutosi alla Fondazione Federico Zeri, è stata la mostra Nascita di una Nazione. Tra Guttuso, Fontana e Schifano, in corso fino al 22 luglio 2018 a Palazzo Strozzi a Firenze. Il curatore dell’esposizione – incentrata su artisti italiani dal Secondo Dopoguerra al 1969 – è Luca Massimo Barbero, attuale direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Giorgio Cini a Venezia e ospite in Biblioteca.

Andrea Bacchi, direttore della Fondazione Zeri, ha introdotto l’intervento, in cui Barbero non si è limitato a descrivere la rassegna, ma ha posto l’accento anche su problematiche di grande interesse offrendo notevoli spunti di approfondimento.

Sin dall’inizio è stato sottolineato il legame storico tra il percorso proposto in Palazzo Strozzi e la città di Bologna; è qui che ha avuto luogo la prima mostra nazionale d’arte contemporanea, allestita nel 1948 a Palazzo Re Enzo, ricordando la quale sono emerse alcune osservazioni sull’arte definita forse anacronisticamente “contemporanea” ed è stata citata l’agguerrita polemica pubblicata in quell’anno sulle pagine di Rinascita da Roderigo di Castiglia, pseudonimo di Palmiro Togliatti. I toni della sua recensione spaziavano da un ormai familiare “come si fa a chiamarla arte” ad un indignato “scarabocchi”, fino al drastico “raccolta di cose mostruose”. Secondo Barbero questa valutazione ha segnato profondamente nei decenni successivi l’arte italiana, persistendo ancora oggi.

La presentazione è stata sviluppata seguendo il percorso espositivo ed esaminando alcuni punti cruciali correlati sia all’attività curatoriale che alle varie correnti artistiche presenti in mostra.

Renato Guttuso con la Battaglia del Ponte dell’Ammiraglio, del 1955, è il primo incontro nella sala significativamente denominata Dopoguerra come nuovo Risorgimento. L’impatto iniziale è multimediale – ha spiegato Barbero – in quanto il dipinto è circondato da due pannelli video che avvolgono e straniano il visitatore, proiettando scene tratte da Senso di Luchino Visconti e immagini d’epoca mescolate all’iconica voce di Mina che canta Le Mille Bolle Blu. Altrettanto iconico è il quadro, la cui prima versione del 1952 era stata proposta alla Biennale di Venezia come un evento storico, espressione di una «nuova mitologia italiana» di ispirazione garibaldina. L’accostamento a Comizio di Giulio Turcato, nella variante del 1950, permette un confronto con Guttuso tramite il quale il curatore ha reso evidente la distanza tra i due filoni, realista e astratto, esistenti nel tessuto artistico del tempo.

È proprio alla «tensione astratta» e al linguaggio dell’informale che punta la seconda sala, in cui si avverte la ricerca di un nuovo corso, culturale e in qualche modo anche politico, grazie al quale la materia e il gesto artistico assumono il valore di contenuto. Sacco e bianco di Alberto Burri del 1953 ha suggerito a Barbero un diverso approccio all’artista in grado di superare la stretta definizione di “artista del trauma”, dovuta alle sue vicende biografiche collegate all’attività di ufficiale medico e alla prigionia in Texas durante la Seconda Guerra Mondiale. La panoramica sul catalogo di Burri ha, inoltre, portato alla consapevolezza che l’inamovibilità di moltissime opere renderà sempre più difficile un allestimento completo e filologicamente corretto per qualsiasi mostra futura, rappresentando uno scoglio non indifferente al tentativo di mantenere alto il livello qualitativo.

I rapporti tra Stati Uniti e Italia sono stati analizzati in varie occasioni durante l’incontro, ad esempio nel narrare della vita divisa tra i due Paesi di Salvatore Scarpitta, descritta da Barbero senza dimenticare il suggestivo episodio del giovane artista che si arrampica sugli alberi e non vuole più scendere, ispiratore del Barone Rampante di Italo Calvino. Le fenditure visibili sulle tele di Scarpitta sono l’anello di congiunzione con i tagli di Fontana – in mostra con Concetto spaziale. Attese degli anni ’60 – mentre la scelta del monocromo da parte di quest’ultimo è connessa, nel percorso espositivo, alle analoghe ricerche espressive effettuate da Piero Manzoni.

Dopo aver messo in luce la stretta correlazione tra la stagione delle ideologie degli anni ’70 in Italia e la produzione artistica coeva, l’indagine sul trait d’union tra gli Stati Uniti e il nostro Paese è proseguita attraverso opere di Domenico Gnoli come Red Dresscollar del 1969. L’attività newyorkese dell’artista – tra gli anni ’50 e ’60 –è infatti sempre parallela alla volontà di ribadire i propri inscindibili “legami” con la madrepatria. La sua morte prematura lo accomuna ad altri artisti dell’epoca come Pino Pascali, scomparso nel 1968 a soli trentatré anni. Gnoli e Pascali si riallacciano alla pop art e all’arte povera, sebbene Barbero abbia chiaramente affermato di essere contrario all’idea di artisti italiani realmente pop.

Le contestazioni del 1968, invece, sono esemplificate in mostra da opere come Corteo di Franco Angeli, appunto del 1968, o da fotografie come quelle dei cartelli apparsi in Piazza San Marco a Venezia, nello stesso anno, in segno di protesta contro la Biennale; uno degli slogan era “1964: POP-ART; 1968 POLIZ-ART”.

Barbero ha inoltre reso noti alcuni dei dibattiti che hanno coinvolto la stampa internazionale, tra i quali, ad esempio, la scelta giudicata negativamente da alcuni commentatori statunitensi del termine “Nazione” nel titolo, percepita come citazione del film del 1915 Nascita di una Nazione del regista americano David Griffith, nel quale sarebbero ravvisabili forti prese di posizione sulla guerra di secessione e sulle questioni razziali. Barbero si è dichiarato piuttosto sorpreso di essere stato definito un reazionario, ed ha ribadito di avere semplicemente selezionato il termine ritenuto più opportuno senza alcun secondo fine.

In chiusura sono state presentate opere di Alighiero Boetti, di Luciano Fabro e la Margherita di Fuoco dai petali metallici di JannisKounellis, che con le sue fiamme incandescenti prodotte da una rumorosa bombola a cannello riporta il visitatore verso la multimedialità. Barbero ha mostrato più volte di avere un occhio vigile sul ruolo, lo spazio e i comportamenti del pubblico: l’opera di Alberto Biasi Eco degli anni ’70 ha, infatti, suscitato riflessioni relative alla sua conservazione e al suo rapporto con il fruitore. Ironicamente l’installazione si ritrova minacciata dalla corsa al selfie di rito del visitatore comune, coinvolto nella fretta di afferrare la propria ombra catturata dai pannelli fotosensibili colpiti da una luce di Wood. Volendo dare una lettura mitologica della situazione, sembra proprio che l’era del narcisismo sia riuscita a riunire infine Eco al suo Narciso e a sciogliere l’incomunicabilità grazie alla tecnologia di un semplice smartphone.

Sulla linea di queste stesse problematiche, Barbero ha confessato di aver evitato le opere specchianti di Michelangelo Pistoletto, che sembrano nutrire nello spettatore un «edonismo» totalmente autoreferenziale. È infatti il Metro cubo di Infinito del 1966 a rappresentare Pistoletto in mostra: moltiplicando la rifrazione degli specchi verso l’interno del cubo, esso esclude l’osservatore dal riflesso, annullando così l’effetto narcisistico e attivando il potere immaginativo di chi guarda. Anche Rovesciare i propri occhi di Giuseppe Penone (1970) – ritratto fotografico dell’artista che indossa lenti a contatto riflettenti – richiama l’idea dell’«ambiguità» della superficie specchiante, utilizzata da Penone come mezzo introspettivo e profetico per l'individuo, forse in contrasto con l’odierna sensibilità dei fruitori, meno orientata verso l’interiorità.

In modo circolare si ripropone infine un’opera video, Tentativo di volo di Gino De Dominicis del 1969, ove è espressa per Barbero la fatica costante dell’Italia di «staccarsi da terra» per proiettarsi verso il presente e il futuro artistico, allontanandosi da un «meraviglioso passato» spesso troppo incombente.

Gli ultimi minuti dell’incontro hanno favorito uno scambio di opinioni tra Luca Massimo Barbero e Andrea Bacchi, che ha giustamente sottolineato la validità di una mostra dinamica e non di carattere manualistico, che evidenzia un confronto paritetico fra l’arte contemporanea italiana e quella statunitense.

Barbero ha confermato la necessità di un’oculata selezione delle opere nel curare un’esposizione che non ha natura né funzione enciclopedica. La mostra è vista come una «macchina sensoriale» tramite la quale riuscire ad isolare il visitatore, oberato dagli innumerevoli input visuali e sonori imposti dalla quotidianità. Importante è anche la volontà di rimettere in gioco i luoghi comuni dell’arte, rivalutando, ad esempio, la posizione degli italiani nei confronti degli americani, oppure rileggendo in prospettiva l’attività di artisti non idoneamente valorizzati.

L’evento conclusivo degli Incontri in Biblioteca 2018 ha dunque puntato il riflettore in modo molto efficace su alcuni aspetti problematici della nostra arte contemporanea, ma anche su questioni che inevitabilmente uno storico dell’arte affronta durante l’attività di curatela di una esposizione temporanea: in primo luogo la necessità di una chiarezza d’intenti che permetta la scelta di un filo conduttore incisivo; lo scontro frequente, inoltre, tra esigenze scientifiche e organizzative; infine, l’attenta osservazione del riscontro ottenuto dalla mostra nei suoi molteplici aspetti, in particolare il rapporto che si instaura tra i destinatari e l’intero progetto.