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Protagonisti e comprimari della scena artistica romana fra XVI e XVII secolo attraverso le “Vite” inedite di Gaspare Celio (1571-1640)

Articolo redatto da Francesco Guidi per la rubrica collegArti in occasione dell'incontro con Riccardo Gandolfi nel contesto de "I mercoledì di Santa Cristina".

11 aprile 2018

Protagonisti e comprimari della scena artistica romana fra XVI e XVII secolo attraverso le “Vite” inedite di Gaspare Celio (1571-1640)

Francesco Guidi

Nell'ambito dei “Mercoledì di Santa Cristina”, l'11 aprile 2018 Andrea Bacchi ha coordinato l'incontro con Riccardo Gandolfi, archivista presso l'Archivio di Stato di Roma che, dopo aver studiato a lungo il panorama artistico romano tra XVI e XVII secolo, con particolare attenzione per Caravaggio, sta preparando una monografia su Prospero Orsi ed entro il 2018 pubblicherà il manoscritto inedito delle “Vite degli Artisti di Gaspare Celio”, frutto degli approfondimenti della sua tesi di dottorato alla Sapienza, che ha presentato nella conferenza oggetto di questa recensione.

La principale fonte sul pittore romano Gaspare Celio (1571-1640) è la “vita” a lui dedicata di Giovanni Baglione, carica di livore nei suoi confronti; la rivalità tra Baglione e Celio viene confermata da Giovan Pietro Bellori, che registra i cattivi rapporti tra i due artisti nelle note marginali poste alla propria edizione dell’opera dello stesso Baglione. D'altronde Gaspare era noto per il temperamento bellicoso, rancoroso, curioso (l’amico Giano Nicio Eritreo lo definì «ficcanaso»), geloso al punto di confinare la moglie in casa per quarantacinque anni, e per i fanatici studi di astrologia da cui era ossessionato.

Tutto questo non gli impedì di acquisire una grande capacità disegnativa, maturata negli anni giovanili, che lo fece apprezzare dai contemporanei. Proprio grazie ai disegni di opere romane, eseguiti per il gesuita Giuseppe Valeriano, ottenne l'incarico di decorare la cappella della Passione nella chiesa del Gesù, secondo Baglione sotto la direzione dello stesso Valeriano (c. 1596-97). Dopo uno sfortunato soggiorno a Parma, presso Ranuccio Farnese, Celio tornò definitivamente a Roma, probabilmente intorno al 1602. Tra il 1607 e il 1615 lavorò a più riprese in Palazzo Mattei di Giove, e nel 1609 divenne principe dell'Accademia di San Luca. Nel 1614, sempre secondo Baglione, Celio diede nuovamente prova della sua indole. Ai padri Barnabiti di San Carlo ai Catinari, che gli avevano chiesto di abbassare le sue pretese economiche, Gaspare rispose che avrebbe devoluto il compenso per la pala a cui stava lavorando in opere di carità: cosa che prontamente fece, in realtà versandolo alla moglie.

Durante la sua vita Celio riuscì a pubblicare unicamente la “Memoria delli nomi dell'artifici delle pitture”, che sono in alcune chiese, facciate, e palazzi di Roma, uscito a Napoli nel 1638 ma scritto nel 1620, polemicamente epurato di ogni possibile riferimento al rivale di sempre, Baglione. Si comprende come il ritrovamento delle Vite, fino a oggi considerate perdute, aggiunga una voce che, proprio per la sua inclemenza, assume un grande interesse, fornendo agli studi contemporanei il punto di vista di un pittore della tarda Maniera sulle dirompenti novità nella scena artistica romana al passaggio tra '500 e '600, a cominciare da Caravaggio, ma non solo. Rispetto a Baglione, che si occupò solo dei contemporanei, Gaspare Celio scrisse anche di artisti del passato.

Il suo punto di partenza è la stesura di un compendio delle Vite vasariane, di cui non fornisce un riassunto neutrale ma finalizzato a imporre la centralità di Roma a discapito dell’approccio filotoscano di Vasari, che, se non «avesse havuto incontro la Scrittura, haveria detto che il primo huomofusse creato in Toscana». Il manoscritto ritrovato è la versione definitiva dell’opera, già pronta per la stampa, completa di introduzione, quattro lettere dedicatorie, 225 biografie, indice alfabetico. Secondo una delle lettere dedicatorie la prima redazione sarebbe stata terminata nel 1614, ma come risulta dalle aggiunte, quasi tutte datate, Celio continuò a lavorarci per tutta la vita, fino al 1640. Continuamente lungo tutta l’opera vengono citati fonti e contatti per dare credibilità alle notizie proposte: Federico Zuccari, Hendrick Goltzius, Pomarancio, Valeriano sono solo alcuni dei nomi di celebri artisti da cui Celio dichiara essergli giunte notizie, ma a volte il procedimento è più farraginoso. Così è per Tiziano, la cui biografia si apre con il dichiarato riferimento non a Vasari ma a Valeriano, che riportava racconti di Francesco da Castello, il quale a sua volta si fondava su quanto riferitogli da un fiammingo che faceva paesaggi per lo stesso Tiziano.

Il pittore romano esercita un occhio quasi da conoscitore ante litteram, proponendo datazioni e attribuzioni originali. A proposito del mosaico di Pietro Cavallini nell’abside di Santa Maria in Trastevere, probabilmente visto da Celio quando lavorava alle pitture dell’organo della chiesa, propone la data del 1291. Quanto ai pannelli della porta di S. Pietro in Vaticano, sostiene che il Martirio di S. Paolo sarebbe stato eseguito sulla base di un modello in cera di Donatello. Nella vita di Raffaello, scrivendo della Madonna di Loreto, individua nel san Giuseppe il ritratto di Ludovico Ariosto, a cui il dipinto era stato donato; questi lo donò a sua volta a un dottore di Volterra (forse Fedra Inghirami?) e per Celio, alle date in cui scrive, era ancora di proprietà degli eredi. Celio ritiene che del dipinto esistesse una copia nella chiesa della Madonna del Popolo, poi ceduto al cardinale Sfondrati. Questo è il dipinto, attualmente ritenuto l’originale, giunto attraverso vari passaggi fino al Musée Condé di Chantilly. Grazie a Gaspare possiamo oggi individuare, nella decorazione della volta della sesta cappella alla Trinità dei Monti, la prima opera di un pittore fino ad ora rimasto senza corpus, Giovan Pietro Calabrese, che lavorò con Giovanni da Udine e fu maestro di Taddeo Zuccari. Il fratello Federico avrebbe mostrato a Celio dei disegni, tra cui quello, oggi al Getty di Los Angeles, con Taddeo al lume della luna mentre copia gli affreschi di Raffaello alla Farnesina, e dei corami con storie della vita di Taddeo, forse da individuare in quelli conservati nei depositi della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini.

Una delle biografie più ampie è quella di Valeriano, a cui è riferita integralmente la Annunciazione nella chiesa del Gesù, senza fare cenno all’intervento di Scipione Pulzone per le vesti, indicato dalla critica dei nostri giorni. Per quanto riguarda lo stesso Pulzone, Celio è il primo a dare notizie della sua giovinezza a Gaeta, dove a suo dire visse in condizioni di estrema povertà, e del rocambolesco viaggio per mare con cui giunse a Roma. Tutto il testo evidenzia quella che era la sensibilità del pittore per i temi legati al restauro, e un caso clamoroso coinvolge proprio Scipione Pulzone, che sarebbe stato autore del restauro di un’opera tradizionalmente attribuita a Raffaello, “San Luca dipinge la Vergine”, conservata all’Accademia di San Luca; il lavoro sfociò in una completa ridipintura, al punto che Scipione si arrogò il diritto di apporre un cartiglio con la sua firma, sfregiato da un furibondo Zuccari.

Su Caravaggio, Celio si mostra molto critico. La sua posizione può essere interpretata come quella di un pittore legato alla tarda Maniera che rimprovera a Merisi di aver spinto i giovani a disertare lo studio dei grandi maestri e la pratica del disegno per fare solo «mezze figure al naturale». Non deve più stupire che questo stesso rimprovero fosse rivolto ai giovani artisti anche da Bellori, dato che oggi sappiamo che nelle sue già citate postille a Baglione ha spesso riportato passi proprio di Celio. Inoltre viene ribadito in modo spregiativo il ruolo come ‘turcimanno’ di Caravaggio svolto da Prospero Orsi, che lo promosse presso il cardinal dal Monte per i laterali della cappella Contarelli. Secondo Celio, Caravaggio visse anche presso Prospero e lì dipinse il “Suonatore di liuto” oggi a San Pietroburgo. L’altro grande innovatore sulla scena romana, Annibale Carracci, è liquidato in cinque righe: un’ulteriore testimonianza del metodo del silenzio con cui Celio colpiva i nemici.

Come sempre le fonti non vanno lette acriticamente e non tutte le indicazioni proposte possono essere immediatamente accettate; ma la quantità di novità messe in luce dalla notevolissima scoperta di Riccardo Gandolfi senza dubbio porterà a ripensamenti e, non appena sarà pubblicata, entrerà nel novero dei testi preziosi per lo studio della storia dell’arte, non soltanto romana, del Cinquecento e del primo Seicento.