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Tra arte e propaganda: il fascismo e Littoriale di Bologna

Articolo redatto da Angela Negri per la rubrica CollegARTI in occasione dell'Atelier di formazione alla ricerca.

9 novembre 2018

Tra arte e propaganda: il fascismo e il Littoriale di Bologna

Atelier di formazione alla ricerca di Riccardo Brizzi

Angela Negri

Il 24 maggio 1920 il Presidente della Repubblica francese Paul Deschanel, durante il viaggio in treno che lo stava portando a Montbrison per l’inaugurazione di un monumento alla Grande Guerra, cadde accidentalmente dal vagone. Nessuno se ne rese conto finché il mezzo non giunse a destinazione. Naturalmente non si trovò il Presidente, che nel frattempo aveva cercato aiuto presentandosi ad un ferroviere con le generalità che gli spettavano, ovvero come presidente della Repubblica. Ma oltre al danno, la beffa: nessuno lo riconobbe come tale, anzi venne deriso e scambiato per un vagabondo fino a quando la polizia non riuscì a rintracciarlo, restituendogli il legittimo potere.

L’episodio, certamente ilare agli occhi di un lettore contemporaneo, è il punto di partenza della riflessione di Riccardo Brizzi per l’atelier di formazione alla ricerca dal titolo “Tra arte e propaganda: il fascismo e il Littoriale di Bologna” tenutosi venerdì 9 novembre nell’Aula Magna del Dipartimento delle Arti, e presentato da Sandra Costa.

Se nella Francia del Primo Dopoguerra nessuno conosceva le fattezze del proprio Presidente della Repubblica, nella vicina Italia pochi anni più tardi la situazione sarebbe stata completamente diversa. A partire dal 1922, anno dell’ascesa al potere di Benito Mussolini e fino alla caduta del regime fascista, la comunicazione mediatica e visiva della figura del Duce permeò qualsiasi ambito della vita – privata e non – dei cittadini italiani, di qualsiasi ceto ed estrazione geografica e sociale. È questo il punto fondamentale di differenza con il contesto francese: Mussolini cercò di sfruttare quanti più canali possibili per legittimare il suo potere attraverso la sua immagine di uomo integro, solido, dalle alte virtù, mentre in Francia – durante il parlamentarismo della Terza Repubblica – mancava ancora una “politica della comunicazione”, soprattutto al di fuori dei centri cittadini.

Il discorso di Brizzi si sofferma in particolare sulla correlazione tra propaganda politica e sport. A partire dalla Rivoluzione Industriale l’attività sportiva era cresciuta in maniera rilevante, considerata motivo di svago, distrazione e coesione sociale. Nel 1896 Pierre de Coubertin, con il motto “L’importante non è vincere ma partecipare”, inaugurò le Olimpiadi moderne, un alto momento di pace e fraterna competizione fra le Nazioni ma, ben presto, lo sport venne sfruttato come pretesto di propaganda interna (ricerca di consenso) e internazionale (competitività e dimostrazione di appartenenza ad una razza superiore). Ne è esempio l’Olimpiade del 1936 organizzata a Berlino, in pieno periodo nazista: il regime di Hitler avrebbe voluto dimostrare al mondo la supremazia della pura razza ariana, mentre poi il grande vincitore ed emblema di quei giochi fu l’afroamericano Jesse Owens.

Allo stesso modo, il regime fascista viene oggi definito come “totalitario” proprio per la volontà di plasmare ogni momento della vita degli uomini secondo la sua ideologia: non si limitò semplicemente a reprimere il dissenso, a sostenere alacremente il sistema censorio, a promettere benessere; si pose l’obiettivo di creare un uomo nobile e virtuoso attraverso una nuova “religione politica”, organizzando il consenso in ogni ambito. Lo sport era un volano eccezionale e i sistemi di informazione dovevano ben misurare le modalità di rappresentazione delle varie discipline. Riccardo Brizzi ha proposto un paragone tra la propaganda sportiva francese e quella italiana. Cartoline come quelle di Henri Rousseau prima e Camille Bombois, poi, raffigurano le attività sportive quasi in ambienti naïf, “surreali”, con personaggi idealizzati che paiono usciti da un fumetto. Diversamente, in Italia si promosse anzitutto lo sportivo per eccellenza, che altri non poteva essere che Benito Mussolini. Alla stampa e agli artisti era proibito severamente descriverlo come un uomo destinato ad invecchiare o come un nonno, sinonimo di vecchiaia e poca prestanza fisica. Nel gennaio del 1923 sulle copertine giornalistiche apparve un fiero Mussolini che scia a petto nudo: un simbolo di virilità e forza che non aveva eguali al mondo. Uno dei motti del regime diventerà poi “nessuna pietà per i grassi” e nel 1938, in un clima di tensione in Europa che non aveva pari nella storia, si sottolineò la manifesta “superiorità fisica” della razza italiana.

Episodio emblematico della censura giornalistica nello sport è quello del pugile Primo Carnera. Nel 1933 vinse la cintura iridata per i pesi massimi negli USA e la sua vittoria venne celebrata in Italia come un trionfo del regime e del suo popolo. Il caso volle che due incontri successivi sul ring di Carnera vennero persi malamente contro due pugili americani, di cui uno ebreo e l’altro afroamericano. Da quel momento la stampa smise di parlare di lui come un eroe nazionale, facendolo gradualmente sparire dalle cronache.

L’analisi di Brizzi prosegue spostando l’attenzione alle infrastrutture sportive. Il governo fascista a partire dagli anni ‘20 diede molta importanza alla costruzione di grandi impianti sportivi - chiamati anche “campi littori” - in particolare nel settore dell’atletica. Il calcio infatti veniva considerato una disciplina poco “maschia”, una moda passeggera, pur vantando in bacheca la vittoria di due campionati mondiali della nazionale: nel 1934, in Italia e nel 1938.

Un importante esempio è il Foro Mussolini a Roma, detto anche “Stadio dei marmi”. Ciò che più lo identifica sono le sessanta statue in marmo che raffigurano altrettante discipline sportive, donate simbolicamente da ciascuna provincia italiana. È un chiaro richiamo alla classicità e al mito olimpico - inteso nell’etimologia greca del termine - il che porta a riflettere su un’ambiguità di fondo del regime. Esso voleva infatti portare un modello di vita nuova nella società, ma riprese ampiamente i canoni del mondo classico, in questo caso in campo architettonico: un tentativo di legittimare il suo potere appoggiandosi alla storia?

Brizzi ha preso poi in esame il Littoriale di Bologna. La prima pietra venne posata nel giugno 1925 e già ad ottobre dell’anno seguente lo stadio veniva inaugurato. Poteva ospitare fino a 36.000 persone e accanto furono realizzate due piscine - di cui una coperta, la prima in Italia - e campi da tennis. Mussolini inaugurò la nuova imponente struttura, entrando in maniera scenografica a cavallo nello stadio. A questo evento si lega anche l’attentato perpetrato ai danni del Duce dal quindicenne Anteo Zamboni, che gli sparò mancandolo, prima di essere linciato sul posto dagli squadristi. L’episodio resta per molti versi oscuro (secondo alcuni si trattò di un tentativo di assassinio ordito da gerarchi fascisti). A lui oggi è dedicata una parte delle mura cittadine ad ovest del centro storico di Bologna.

Dopo l’inaugurazione venne innalzata la torre di Maratona e davanti al grande arco alla base venne collocato il monumento equestre a Mussolini, realizzato da Giuseppe Graziosi. Anche in questo caso abbiamo un netto richiamo al mondo antico: si veda, ad esempio, il monumento rinascimentale a Bartolomeo Colleoni realizzato da Andrea del Verrocchio a Venezia. Il bronzo per la statua venne ricavato dai cannoni sottratti agli Austriaci durante il Risorgimento italiano, nel tentativo di suggellare un legame ideologico con la nascita del regno italiano. Quasi poi per contrappasso, nel luglio 1943, il busto del Duce a cavallo venne abbattuto e trascinato per le vie di Bologna, mentre il cavallo venne deposto dopo la Liberazione nel 1945 e il bronzo riutilizzato per il Monumento al Partigiano e alla Partigiana di Luciano Minguzzi, collocato di fronte a Porta Lame, a simboleggiare il valore rigenerativo dell’arte.

L’incontro con Riccardo Brizzi ha voluto dunque approfondire una tematica oggi ancora attuale, ovvero la propaganda esercitata attraverso le immagini. Oltre alla bibliografia, le fonti iconografiche, I fondi e I documenti d’archivio - anche giornalistici - sono strumenti essenziali da cui poter attingere per la ricerca storica, resa più semplice dal progressivo processo di digitalizzazione. Ad esempio, “La Stampa” ha reso pubblica online ogni sua singola edizione a partire dalla sua fondazione nel 1867, oppure l’Istituto Luce propone online il suo archivio audiovisivo.

Riccardo Brizzi ha dunque scelto di illustrare il tema avvalendosi degli intrecci tra arte, architettura e storia, e ha messo ancora una volta in evidenza la forza comunicativa delle immagini e l’utilità del metodo interdisciplinare nel rendere in modo esemplare le molteplici sfaccettature di ogni dinamica storica.